VIAGGI&PERSONAGGI, di Federico Formignani
Un tuffo nella Cuba profonda può durare lo spazio di un viaggio in treno, tra vecchi militari accigliati, studenti-merenderi, bambini in libertà, poeti sdentati e l’odore della sugarcan che impregna l’aria.

 

Prelevandomi all’hotel Alberto Salas, la giovane e simpatica guida che il Centro de Prensa Internacional, sezione Prensa Extranjera mi ha assegnato, mi informa che oggi non avremo spostamenti in auto se non al ritorno, con il solito autista e la solita auto un po’ asmatica; Pablo verrà infatti a prenderci a Matanzas – città che raggiungeremo in treno – per riportarci all’Avana, Ma non è dalla Stazione Centrale che parte il treno che dobbiamo prendere questa mattina. Una vecchia chiatta ansimante che sarebbe eccessivo definire battello, carica di campesinos e di operai, in pochi minuti ci conduce sull’altra sponda della baia dell’Avana in località Casa Blanca, scritta a volte tutta attaccata in omaggio (forse) al mito di Humphrey Bogart.
Il piccolo molo d’attracco accoglie con assoluta imparzialità il traghetto, rifiuti galleggianti d’ogni genere e stormi di gabbiani che vi sguazzano beati. Tutti scendono con calma, chiacchierando animatamente sui fatti della vita che a Cuba sono sempre molto interessanti. Le donne si lamentano per le difficoltà che incontrano nel far quadrare gli striminziti bilanci familiari, alle prese come sono con l’onnipresente libreta (la tessera del razionamento); gli uomini discutono dei problemi di lavoro e programmano le piccole gioie della serata: una cena con gli amici in uno dei molti ristorantini a gestione familiare (paladares) e copiose bevute di ron (rum bianco e ambrato) anche se di qualità scadente; i modesti pesos locali non permettono di meglio. Giunti a Casa Blanca i gruppi si dividono. Alcuni, inforcata la bici, si dirigono verso le fabbrichette della zona; altri raggiungono la stazione distante pochi passi, non senza fermarsi al baracchino dei giornali dove acquistano Granma; per 20 centavos di peso (ne occorrono 25 per fare un dollaro) sfogliano le otto pagine dell’Organo Oficial del Comite Central del Partido Comunista de Cuba che, quando c’è carta, tira 800.000 copie; nei momenti di crisi (come questo di periodo speciale dovuto al bloqueo americano) la tiratura scende in proporzione.
Sono le sette e mezzo e già il sole picchia duro. Sull’altura che sovrasta Casa Blanca, il cui verde è punteggiato dal rosso-arancio dei flamboyant, si staglia la statua del Cristo che domina la baia. Il treno rosso, non ancora presente sull’unico binario che fronteggia la stazione, partirà alle nove per Matanzas; i viaggiatori arrivano alla spicciolata e occupano i sedili in pietra piazzati sotto la grande pensilina; un pisolino supplementare, le solite confidenze in attesa di mettersi in fila per acquistare il biglietto: mezz’ora prima della partenza. Finalmente arriva il vecchio treno: il locomotore dipinto di rosso porta il numero 20803 e aggancia un paio di vagoni di ferro che oltre al rosso hanno una larga banda inferiore color crema; sembrano dei containers su ruote nei quali siano stati praticati dei rettangoli orizzontali (i finestrini) ed altri verticali (le porte). Gli interni, dipinti di un verdino d’annata, hanno file di sedie anch’esse in ferro sui due lati. Il manovratore nel frattempo è salito sul tetto della locomotiva e armeggia con il grosso pantografo per adattarlo al cavo della corrente; una volta terminata l’operazione, scende con quattro salti e si sposta verso il chiosco dell’imbarcadero per far colazione. Poco dopo, il treno si riempie di viaggiatori e parte.
Per una decina di minuti il trenino rosso e crema caracolla fra il verde arruffato di una periferia industriale (il fumo denso e scuro di una ciminiera, alcune cave, discariche, rottami, piccole pozze d’acqua). Ogni tanto il convoglio si ferma per consentire ai contadini di raggiungere i loro campi e le rispettive abitazioni. La linea corre (si fa per dire) al di qua delle colline che la separano dai centri della costa: Cojimar, celebre per aver ospitato Hemingway che qui ha ambientato il suo Il vecchio e il mare; poi Alamar, Celimar, El Mégano, Santa Maria del Mar, sino alla più estesa Guanabo. Le minuscole stazioni si perdono nella vegetazione, tagliata questa dalle stradine polverose che attraversano il binario unico: Barreras, Agromar, Guanabo Viejo.
Mentre il treno rosso va, l’attività “sociale” dei vagoni si anima. Uno studente, una gamba sul predellino e l’altra un po’ più in alto all’interno della vettura, con un coltellaccio scortica un enorme mango giallo e distribuisce fette del frutto succoso ai compagni di viaggio; solo un vecchio ex-militare, con la sua brava divisa verdeoliva e il cappellino alla Fidél, rifiuta il frutto, assorto com’è in suoi lontani pensieri: forse rivede l’eroica marcia di quarant’anni prima, attraverso i campi della canna da zucchero che costeggiamo. Refoli d’aria si infilano nelle porte e nei finestrini mitigando la calura del mattino. Una coppia di fidanzatini dalla pelle nerissima si scambia effusioni contenute, interrotte per un attimo dalla ragazza che deve recarsi alla toilette situata in testa al vagone; i servizi sono un piccolo antro nero, col water-vista-terra e un minuscolo lavabo collegato a un serbatoio dal quale scende l’acqua. Non mancano tuttavia piccole attenzioni nel treno per Matanzas: un paio di posti a sedere, infatti, recano sulla lamiera una scritta stampigliata in rosso (embarazadas) e una figurina di donna col pancione. I numerosi bambini scorrazzano in piena libertà e fatalmente finiscono sui piedi degli altri viaggiatori, ma nessuno protesta: una carezza e via, a correre di nuovo. Alcune donne di mezza età, forse stanche per il turno di notte consumato a l’Avana, si addormentano, il capo mezzo fuori dal finestrino.
Chi si distingue nel gruppo dei viaggiatori, non solo per la divisa grigia e il berretto gallonato, è il bigliettaio; borsa a tracolla, gestisce il complicato conteggio delle tratte intermedie contando le monetine che riceve e quelle che dà in resto; ma trova il tempo per interessarsi degli affari dei suoi viaggiatori, molti dei quali sono oramai amici. Chi gli racconta le storie di famiglia, chi si fa dare una mano per scaricare la preziosa bicicletta.
Nella stazione di Hershey (a doppio binario) la sosta è prolungata; il treno diretto all’Avana ha un po’ di ritardo ma nessuno ci fa caso; il tempo delle attese a Cuba è parte integrante del vivere quotidiano. Finalmente si riparte e il panorama cambia un po’; lontane montagne azzurrine delimitano enormi distese di campi di canna da zucchero; ogni tanto un ingenio (fattoria-mulino) per la lavorazione del prodotto tagliato dai macheteros. Le prime case di Matanzas bucano il verde intenso della campagna; sono messe qua e là, in deliziosa anarchia urbana. Poi un ponte sul fiume, il mare all’orizzonte. Da questo porto viene spedito quasi tutto lo zucchero prodotto a Cuba. La stazione, dove c’è l’auto con Pablo che ci ricondurrà all’Avana, sembra la fotocopia di quella di Casa Blanca. Una pensilina in ferro, le solite panchine e molta gente che aspetta il treno del ritorno.
In pieno centro città, in una delle tante strade che si intersecano a scacchiera, l’auto ha un sussulto: tossicchia, sbuffa, esplode e si ferma. È un attimo: dagli angoli delle vie sbucano alcuni uomini che spingono il mezzo sino a fargli riprender fiato e ripartire, con grande sollievo di Pablo. Uno di questi uomini è anche il poeta locale che ci fa dono di alcuni foglietti scritti a mano. Le liriche d’amore sono semplici e zuccherose come l’odore della canna che impregna l’aria: “…no se si te comprendo, cuando hablamos de amor, no quisiera perderte, me muero de dolor”. Camiciola al vento, sorriso sdentato, il poeta saluta e scompare nella scacchiera di Matanzas.