di URANO CUPISTI
Mentre a Newport Bob Dylan tradiva il Folk Festival con la svolta elettrica, il nostro visitava la capitale della Pennsylvania sulla Cadillac Deville V8 cabrio azzurra di Anterenosse John Lucchesi, “the Tuscan House Painter“. Era il luglio del ’65.
Al ritorno da Baltimora ebbi solo 72 ore a disposizione. Giusto il tempo di cambiare valigia, fare festa con mamma, nonni e sorella, qualche telefonata agli amici e via di nuovo in mare con mio padre. Destinazione: Filadelfia, Pennsylvania.
Tredici giorni di navigazione di cui alcuni scortati da un branco di delfini, l’avvistamento di notte dello Stretto di Gibilterra e poi un Oceano Atlantico ai limiti dell’agitato. La motonave Guido Donegani, tutta vuota, accompagnò con il suo rollio e beccheggio continuo la nostra vita da lupi di mare.
A un inesperto le giornate in mare aperto potrebbero sembrare noiose, ma non è così. I lavori quotidiani erano scanditi da orari precisi, con brevi pause per mangiare e i turni di guardia che permettevano di dormire per appena sei ore. Io, privilegiato, potevo soffermarmi invece sugli avvistamenti degli uccelli migratori e dei cetacei itinerario verso i luoghi di riproduzione. Era bello anche vedere da lontano e distinguere altre navi cargo su rotte differenti dalle nostre. Ricordo di aver osservato da lontano le Azzorre con le loro maestosità vulcaniche.
All’alba del tredicesimo giorno di navigazione, capii dal calo del rumore dei motori che eravamo arrivati. Corsi di fretta in plancia ad ammirare l’estuario del Delaware, poi l’arrivo della “pilotina” insieme ad un rimorchiatore, il percorso sul fiume navigabile e le manovre di attracco nel porto di Filadelfia.
Filadelfia, o Philly, come la chiamano i suoi abitanti, era di fronte a me, avvolta da una intensa luce estiva. Mio padre aveva preannunciato che sarebbe venuto a prendermi John, al secolo Anterenosse Lucchesi, un suo coetaneo emigrato in Pennsylvania negli anni ’50 in cerca di fortuna.
E fortuna ne aveva fatta John Lucchesi. Così si era autoribattezzato: troppo difficile per gli americani pronunciare il suo vero nome.
Arrivò direttamente sotto nave con una lussuosa cabriolet, quella chiamata allora “an american standard for the world” (ossia “uno standard americano per il mondo intero”: una sfavillante Cadillac Deville V8, di colore celeste con cromature lucenti ovunque e fasce bianche sui pneumatici. Fu il mio ingresso ufficiale nel sogno americano.
John Anterenosse Lucchesi parlava un italiano ormai molto italoamericano. Non capivo se lo faceva di proposito, proprio per accentuare il suo status di “emigrante arrivato”.
In questo senso, l’impatto fu dirompente: fece a tutto gas sul Benjamin Franklin Bridge e, arrivato al casello, oltre pagare il pedaggio dovette pagare 100 dollari per eccesso di velocità. “Caro Urano, questa è l’America!”, disse. “Qui puoi permettere tutto, basta sborsare un po’ dollari”. E John faceva intendere di averne parecchi.
Prima tappa del tour, la sede della sua ditta, con allineati ben 10 furgoncini con scritto “John Lucchesi, the Tuscany House Painter“. Poi via verso Filadelfia nordovest, la parte della città fuori dai sentieri battuti, nel quartiere residenziale di Manayunk. In pratica a casa sua.
Non poteva che essere com’era: villa con grande giardino, familiari al completo e uno stuolo di amici italoamericani, cane enorme, barbecue pure, il tutto organizzato in un tripudio di bandierine dei due paesi. Solo per ricevere il sottoscritto. Una festa che durò fino a sera, in un frastuono infernale.
John mi requisì. Sarei stato suo ospite per altri due giorni. Lui mi avrebbe fatto conoscere Filadelfia e dintorni. E così fu.
All’indomani era previsto il cosiddetto “luogo di nascita dell’America“.
Il Center City est, con Il bellissimo Municipio, il Convention Center, Chinatown, Washington Square West. Center City ovest, con quartiere dei musei, la Rittenhouse Square, i ristoranti su Chestnut e Walnut Street e una buona parte del quartiere centrale degli affari, quello con i grattacieli più alti. Dopo toccò alla Città Vecchia, il quartiere più antico, dove affondano le radici dell’indipendenza americana: la Liberty Bell, la Constitution Hall e l’Independence Hall.
All’Italian Market, nel distretto Little Italy a Filadelfia sud, respirai un’atmosfera indimenticabile, col mercato all’aperto dei prodotti freschi e il cibo delle varie regioni italiane.
In una libreria acquistai un libro sulla storia di questa città, dalla fondazione nel 1682 ad opera del quacchero William Penn, fino al 1963, anno della morte del Presidente Kennedy. Una incredibile lettura che feci al ritorno rivisitando con la mente i luoghi che avevo calpestato.
E la sera di nuovo a spasso nella città vecchia per vivere le emozioni della vita notturna, la bistecca al formaggio con provolone e cipolle bagnata dalle birre locali: Yuengling, Yards o Troegs.
Ripensandoci, nessun viaggio a Filadelfia è concepibile senza provare la bistecca al formaggio, il cibo locale più tipico: è un panino fresco ripieno di manzo, formaggio grigliato, cipolle e funghi. In pratica è l’attestazione dell’avvenuta visita alla città.
Il terzo giorno fu la volta della visita a Lancaster, cittadina distante circa 120 chilometri da casa di John. Mi chiesi subito perchè ci eravamo venuti, visto che era insignificante. E la risposta non tardò ad arrivare: era un calesse nero dal quale dove scese una famiglia di Amish in abito tradizionale. John mi disse: “Andiamo a scoprire meglio come vivono“.
Attraversare la campagna fuori Lancaster con quella la Cadillac fiammante e incrociare i calessi degli Amish fu come una sorta di esperienza di vita a ritroso.
Gli Amish vivevano e vivono ancora come agricoltori e artigiani ruralia Vestono tutti uguali. Gli uomini portano cappello, abito nero, barba come chiede la Bibbia. Non i baffi, perché sono associabili alla vita militare e ai suoi disvalori. Le donne portavano abiti disadorni, con le maniche lunghe, grembiuli e cuffiette a coprire i capelli, che sono lunghi perchè non li tagliano mai. Non portano nemmeno gioielli.
La comunità, mi spiegarono, si fonda sul reciproco aiuto, rifiutano ogni tipo di oggetto moderno, aborrono la televisione, non usano l’elettricità e non amano curarsi in ospedale, preferendo rimedi casalinghi.
A sera inoltrata ritornammo al porto. La Guido Donegani era bella carica pronta a salpare.
Ci fu appena il tempo di un saluto al mio nuovo amico, l’emigrante che aveva fatto fortuna laggiù.