Note e considerazioni a margine dell’esibizione della “sacerdotessa” nella Cattedrale senese, ospite dell’Arcidiocesi e dell’Opera della Metropolitana, tra spiritualità, love, peace, equivoci, nostalgie e qualche spruzzo di ovattato rock and roll.

 

Il concerto

Alla fine è stato un bel concerto, o per meglio dire un evento, in un ambiente d’eccezione (per solennità perfino soggiogante), venato di spirito natalizio e pieno di rispetto per il luogo, di ringraziamenti, di citazioni, di appelli pacifisti e di dediche, quello di Patti Smith sotto le volte stellate e azzurre della cattedrale senese.

Un’ora esatta di show – forse anche troppo esatta a dire il vero, diciamo pure cronometrica – composto e a tratti un po’ freddino, che ha toccato il suo culmine non tanto nelle prevedibili ovazioni per la popolare “Because the night” o nel facile standing final di “People have the power”, ma piuttosto nei delicati, sentiti omaggi a sorpresa tributati a metà show agli amici scomparsi Tom Verlaine (“Guiding Light”, da “Marquee Moon” dei Television) e Shane McGowan, che come il genio della lampada si è materializzato con la melodia di “Fairytale of NY” nell’assolo di chitarra di una “Beneath the Southern Cross” sfumata poi, con studiato candore, nella “Happy Christmas (War is Over)” di John Lennon.

Non era del resto un contesto da concerto rock, non c’era una band rock, né un pubblico da concerto rock e, soprattutto, da decenni Patti Smith – per l’occasione affiancata alla chitarra dal figlio Jason, avuto da Fred Sonic Smith, e dal fido Tony Shanahan al basso e alle tastiere – non è una musicista rock.

Lo spettacolo si è così srotolato con sobria intensità in quello che doveva essere: un happening culturale e al tempo stesso un tributo alla città, fin troppo carico di aspettative, a volte, ma capace di ripagare le attese di chi non aveva equivocato su forme e contenuti. Forse deludente invece per chi, fan o detrattori che fossero, si aspettava tuoni e fulmini nel cuore del sancta sanctorum cittadino. Ai secondi si è rivolto l’arcivescovo Augusto Paolo Lojudice sciorinando in apertura il lungo elenco dei luoghi sacri italiani in cui, nel corso degli anni, Patti Smith si è esibita prima che a Siena.

E dopo di lui, davanti all’altar maggiore eccola, la “sacerdotessa”, in chiome grigie e completo blu un po’ stazzonato tutt’altro che sacerdotale.

Riconoscente e a tratti emozionata non si è risparmiata. E non hanno nuociuto ai contenuti strettamente musicali certi intermezzi strumentali più elettrici del previsto, che hanno compattato la sequenza delle canzoni, complice anche l’assenza in scaletta (o meglio la cancellazione estemporanea, con divertente siparietto causa il confessato smarrimento degli occhiali) di un paio di previste “lectures” poetiche.

Ecco il dettaglio:

  • Grateful
  • Ghost
  • Guiding light
  • Nine
  • Dancing barefoot
  • Beneath the southern cross
  • Holy night
  • Peaceable
  • Pissing in a river
  • Because the night
  • People have the power.

Si è finito in piedi, ma senza il bis. Che nessuno ha chiesto e che nessuno ha offerto. Lei è scivolata subito via, i vip sono immediatamente passati ai convenevoli, la gente è sciamata via lentamente.

Sintesi in fondo perfetta dell’atmosfera che fin dall’inizio aleggiava sotto la cupola, in bilico tra solennità ed eccitazione, formalità e timidezza.

 

Patti Smith a Siena, le considerazioni.

Da quasi mezzo secolo Patti Smith è, in parte suo malgrado, la prova forse incolpevole ma tangibile di un certo provincialismo italiano. Non solo a causa della perseveranza dei media nostrani, in verità più ridicola che irritante, di continuare a chiamarla, per calcare la notizia e con effetti patetici, “sacerdotessa del rock“, cosa che di sicuro non è mai stata (e meno male che non scrivono “del punk“). Ma in senso molto più ampio, transculturale e transgenerazionale. Una definizione così anacronistica che, in fondo al cuore, credo sia la Smith stessa a sorriderne per prima, meravigliandosi di tanta tenace idolatria e di una tanto solida riprova dell’attitudine nazionale alla mitizzazione del sentito dire. Da parte sua, del resto, ben salda nel ruolo di contesa celebrità internazionale, lei non si sbilancia e si comporta come direbbe Luciano Moggi (Patti mi perdoni): “Non confermo né smentisco”.

Non intendo entrare nel merito dello spessore artistico e nemmeno di quello umano della nostra. Anche se devo ammettere che, avendola conosciuta di persona, mi è parsa tutto tranne una rockstar o una vip, almeno nel senso che l’immaginario collettivo attribuisce convenzionalmente al termine. Quella che a me pare strana, tuttavia, rimane l’incapacità, o meglio il rifiuto dell’italiano medio di affrontare con pacatezza il fenomeno Smith nella sua sfaccettata complessità. Una complessità determinata da una parabola personale e creativa su cui l’anagrafe e il mutare dei costumi finiscono per influire più di ogni altro elemento, conducendo ad approdi ben diversi da quelli un po’ stantii della poetessa rock e dell’“inquilina inquieta” di Robert Mapplethorpe nella New York degli anni ’70 che i luoghi comuni perdurano a cucirle addosso.

Il caso poi ha voluto che, proprio quando settimane fa è uscito l’annuncio del concerto gratuito senese, stessi leggendo il libro di Goffredo Plastino “Rumore Rosso” dedicato giustappunto all’epopea smithiana dei due show del 1979 a Firenze e Bologna, autentici spartiacque nella storia della musica e della società giovanile italiana.

Ed è stato allora quasi tenero riscoprire, nelle ingenuità dei fan di allora, le stesse debolezze, le stesse illusioni, le stesse inclinazioni del molto più variegato pubblico di oggi. Che è costituito non sono soltanto dai ventenni di allora un po’ nostalgici, ma pure da un paio di generazioni successive, spettatrici ora distratte e ora inconsapevoli delle tante cose che la nostra ha fatto, ha scritto, ha cantato ed è diventata nel frattempo, una sorta di mediatrice culturale e di ambasciatrice di pace lontana assai da radicalismi ed eccessi e imbevuta, casomai, di un certo ecumenismo molto liberal all’americana.

E in questa veste, come a Firenze due anni fa, Patti Smith si è presentata a Siena davanti all’arcivescovo, il prefetto, le autorità e un pubblico ora fremente e ora impellicciato per un evento in sospeso tra spiritualità e mondanità, clima natalizio e rock and roll, spettacolo e fede.

Il mese scorso, la notizia dell’esibizione senese – gratuita, riservata a chi per primo si fosse prenotato on line, settecento posti e non uno in più andati esauriti in poche ore, con strascico polemico variamente strumentalizzato – aveva del resto mandato la città in subbuglio. Ma tutto il mondo è paese: lo stesso accadde quando a Firenze si seppe dell’esibizione della Smith programmata per il 27 giugno 2022  alla Galleria dell’Accademia a Firenze, uno show per pochi fortunati proprio sotto i penduli attributi (gli stessi che un anno e mezzo dopo una quota perbenista del mondo accademico a stelle e strisce avrebbe bollato come oscena) del David di Michelangelo. Anche allora posti esauriti in un attimo, assalto agli inviti, siti intasati.

Dopo mezzo secolo, lo sterotipo resta.