In un grande cimitero fiorentino ritrovate per caso decine di lapidi, cippi e croci sepolcrali scaricate abusivamente nella collina sottostante. Non si è avuto neanche il coraggio di passarci sopra “col carro e l’aratro“, come il poeta esortava a fare.

 

Nel personale zibaldone emotivo che ognuno di noi porta ben stretto con sè, e che maturò nei tempi ormai lontani dell’adolescenza, c’è sempre qualcosa, chissà perchè, rimasto nella memoria più scolpito di altro.

A me ad esempio rimasero impressi certi versi di William Blake che lessi in una raccolta economica comprata in una delle librerie remainders a quei tempi così diffuse. E dove, tra pubblicazioni obsolete, brossure un po’ deformate dall’umidità, manuali dei più astrusi, si trovavano a volte vecchie edizioni di collane gloriose (mi vengono in mente i volumetti grigi e scabri della BUR, pieni di classici) e cose che solleticavano la tua curiosità assetata di esplorare.

Di Blake sapevo poco, era solo uno dei tanti nomi che, tra le acque agitate e torbide delle suggestioni letterarie, rimbalzavano nella mia testa di diciassettenne. Ma quell’antologia poetica dal formato insolito e dalla copertina sgargiante mi colpì subito. Tra i primi versi che lessi appena tornato a casa ce ne furono due, da “Proverbi dell’Inferno“, che non ho più dimenticato.

Il primo era questo (preveggenza georgica?): “Il verme tagliato perdona l’aratro“.

Il secondo era “Passa il tuo carro e il tuo aratro sulle ossa dei morti“.

Di colpo mi sono tornati in mente leggendo ieri l’articolo di Jacopo Storni sul Corriere Fiorentino a proposito dell’orripilante vicenda delle decine di tombe, lastre sepolcrali, croci, ossari e cippi funebri buttati abusivamente e ritrovati per caso in un bosco a valle di Trespiano, uno dei cimiteri monumentali cittadini. Roba vecchia di qualche decennio, resti di sepolture dismesse e ormai quasi integrate nel sottobosco, muscose, coperte di foglie, sterpi e ramaglie. Gettate lì per disfarsene alla svelta e a buon mercato.

Ovviamente non conosco i dettagli burocratici e giudiziari del caso.

Ma ho scritto sopra che la vicenda è orripilante e non ho scelto l’aggettivo a caso.

L’ho scelto perchè non è solo macabra.

E’ orrenda la tristezza del gesto in quanto tale. Povere sepolture già di per sè dimenticate, evidentemente scadute e non rinnovate da parenti distratti, o disaffezionati, o forse ormai appartenenti a generazioni solo troppo lontane per tempi in cui il culto dei morti non conta, che dismettendole e consentendone la demolizione hanno dato così via libera, in qualche modo, anche alla cessazione della memoria del defunto e del rituale a lui dedicato. Un defunto destinato pertanto ad essere abbandonato due volte: nella memoria dei familiari e pure nel segno, nella lapide che ne contrassegnava la fisicità di persona. Che ne marcava, delimitando per così dire il territorio calpestabile, l’identità.

E dunque nonni, bisnonni, commendatori e manovali, neonati, mogli e madri di famiglia, babbi a lungo pianti e celebrati e infiorati si sono ritrovati tutti insieme uno sull’altro, alla rinfusa, chissà in quanti, rimescolati in una discarica abusiva di cui sono al tempo stesso, grottescamente, oggetto e sostanza.

Mi pare una cosa tristissima. Dove allignano vermi senza aratri da perdonare, perchè il carro e l’aratro non sono passati su di loro, nè li hanno tagliati, o spezzati, o sepolti. L’autista, di notte e di nascosto, si è limitato a scaricare tutto da una parte, nel burrone, sperando che nessuno vedesse. Senza neppure il coraggio di schiacciarli sotto le ruote passandoci sopra.

Brutto, brutto assai.