Domani, 26 luglio, il leader dei Rolling Stones compie ottant’anni. Età veneranda per un rocker e una vera boa di vita per chiunque. Dal ’73 in poi, i suoi compleanni li ho vissuti con sentimenti alterni. Ecco quali.

 

Il 26 luglio del 1973 non avevo ancora tredici anni, leggevo le riviste per ragazzini, non capivo quasi niente di musica, sapevo appena chi fossero i Rolling Stones e conoscevo Mick Jagger più che altro d’aspetto, per averne riconosciuto di sfuggita la fisiognomica su qualche rotocalco.

Poi, una mattina, mentre in edicola compravo il solito fumetto, l’occhio mi cadde su un giornale a me ignoto ma che, compresi, doveva trattare di cantanti e di complessi. Forse Ciao 2001, che avrei cominciato ad acquistare solo un anno dopo? Non credo. Rammento però una foto di Mick e uno strillo: “Mick Jagger ha trent’anni!“. Il senso era quello di un annuncio funebre o catastrofico, insomma di un evento che chiude un’epoca, che marca la fine di un’era. La fine di un sogno, o di un’illusione.

Non comprai la rivista, ma quel titolo mi fece riflettere: era la prima volta che mi rendevo conto che esistevano simboli generazionali e che, come tutte le cose, anche le generazioni invecchiano, simboli inclusi, sebbene ognuna di esse faccia fatica, quando è nel fiore, a non sentirsi eterna.

Pensai – lo so, è un po’ ingenuo e un po’ ridicolo – a come dovevano sentirsi i devoti jaggeriani che da quel giorno in poi si sarebbero trovati orfani e soli. Per il semplice fatto, eclatante e al tempo stesso banale, che lui non aveva più 29 anni e 364 giorni, ma 30 anni precisi. Pareva il crollo di un muro, il superamento di una soglia psicologica.

Meno di tre settimane dopo quella ricorrenza (13 agosto) però, ironia della sorte (mia), usciva Angie, la prima canzone degli Stones che ascoltai con attenzione e che, in qualche modo contribuì a indirizzare per sempre la mia già inconsapevole attrazione per il rock.

Ma al netto di questo, è ovvio che in sostanza quella ricorrenza per nessuno cambiò nulla. E che Mick Jagger continuò ad essere Mick Jagger.

Dieci anni dopo, viceversa, nel mio personale foro interno il suo 40° compleanno passò più o meno in sordina: avevo metabolizzato da tempo la musica degli Stones ed ero talmente, profondamente, vastamente immerso nel rock and roll che il pur tondo genetliaco del leader della band, da me considerata ormai istituzionalizzata, mi lasciò pressochè indifferente.

Altrettanto accadde nel 1993 per il 50°, sebbene con qualche sfumatura diversa.

Le motivazioni del mio distacco erano le stesse di dieci anni prima: rock and roll mainstream, pensai, senza troppo soffermarmi però, nè realizzando che anch’io avevo da poco superato la fatale boa dei trenta e che, se avessi dovuto dar retta agli allarmi orecchiati nel 1973, avrei a quel punto dovuto cominciare a sentirmi un po’ inadeguato o fuori dal tempo anch’io. Del resto, pochi anni prima (1976) ci avevano già pensato Ian Anderson e i Jethro Tull a lanciare su vinile l’inquietante messaggio anagrafico: “Too old to rock and roll, too young too die“. E non a caso, più o meno col medesimo stato d’animo, proprio nel 1994 il fondatore Bill Wyman aveva mollato gli Stones.

Nella mia testa le cose cominciarono a cambiare, ma ancora lievemente, nel 2003, quando il nostro toccò il venerando (per un rocker non proprio morigerato come lui) traguardo del 60°. Che rappresentava e rappresenta tuttora una sorta di accesso anche psicologico all’età oggettivamente pensionabile. Era però anche un’età dalla quale all’epoca io, appena ultraquarantenne, mi sentivo lontanissimo. Come dire: lui è vecchio, io ancora no. Ho ancora strada davanti a me.

Uno iato che continuai a sentire forte, ma meno di prima, pure due lustri dopo. I settant’anni di Mick, nel 2013, mi scivolarono addosso assai viscosamente, come reumatismi, camuffati e diluiti nelle diffuse ironie sul fatto che da un lato, dopo una vita di eccessi, i settuagenari Stones fossero non solo ancora vivi, ma pure on the road, e che dall’altro difficilmente avrebbero, si pensava, visto il decennio successivo.

Ed eccoci all’oggi.

Il decennio corrente l’abbiamo intrapreso da un pezzo e i Rolling Stones, sebbene orfani dal 2021 pure di Charlie Watts, ci sono ancora e lottano per voi. Jagger sta per compiere 80 anni.

Caspita, stavolta sono tanti davvero. Oggettivamente tanti. Anche perchè io, nel frattempo, ho imboccato a mia volta l’età pensionabile. Pur senza sentirmi affatto pensionando, come forse nemmeno lui si sentiva a sessant’anni, nel 2003.

Così il cerchio tra me e lui si chiude, con la memoria va al solito, inevitabile “Quasi Famosi“, film-manifesto  ambientato per l’appunto nel 1973, quando Jagger compiva trent’anni.

In una delle scene-clou della pellicola, il nuovo manager della band (interpretato da uno scintillante Jimmy Fallon) fa una ramanzina ai musicisti invitandoli a togliersi il prosciutto dagli occhi e, nel nome dello show business, chiede loro: “Pensate davvero che a cinquant’anni Mick Jagger sarà ancora lì a fare la rockstar?“.

Diciamolo: mai profezia fu più sbagliata.

Too old to rock and roll, too young to die.

E non vale solo per Jagger.