Ci sono banali gesti quotidiani che fanno emergere ricordi dagli abissi della memoria e fare considerazioni agrodolci. Anzi, diciamo ciniche.

 

Quando ero bambino, al centro del soffitto dello stanzone di fattoria, quello che precedeva il temuto “scrittoio” e faceva da ingresso e sala d’aspetto, c’era, alta alta, una lampadina grande grande, che faceva una luce gialla gialla e fioca fioca: un po’ perché lo spazio da illuminare era tanto e un po’ perché, a dispetto delle dimensioni del bulbo, aveva poche candele, come si diceva allora. Sessanta, forse.
Per quella generale abitudine rurale di risparmiare a prescindere e di evitare gli sprechi, veniva accesa con molta parsimonia. E la severa raccomandazione che la fattoressa e la sottofattoressa facevano a tutti, bimbi e domestici (si trattava di un ordine perentorio), era di non lasciarla mai accesa perché, dicevano, consumava troppo.

Probabilmente, per gli assorbimenti dell’epoca, era anche vero. O forse era solo una questione di prudenza e di principio.

Ma a me, per quelle sue dimensioni da ampolla dentro al quale il filamento quasi spariva, finendo per somigliare a una ragnatela intrappolata nel vetro, piaceva comunque da morire. Passavo ore a guardarla, anche spenta, quando di giorno le lame di luce che filtravano dalle persiane la colpivano in tralice, trasformandola in una sorta di prisma tondeggiante capace di gettare attorno nuovi riflessi.

Non so che avrei dato per poterla tenere in mano almeno per un po’, con delicatezza, e scrutarla da vicino.

Cosa ovviamente impossibile per via dell’altezza del solaio e per il controllo rigidissimo a cui essa, la stanza e me medesimo eravamo sottoposti.

Poi, per anni, mancai da quello stanzone. E piano piano mancarono, fino a scomparire, tutte le persone che lo frequentavano: i fornitori, gli artigiani di fattoria, gli operai, le fantesche, i contadini, le massaie, il terz’omo, il fattore, la fattoressa, la sottofattoressa. E, per ultimi, i padroni. La lampadona invece rimase lì, malinconica ma dignitosa nella sua ipertrofia, sempre più impolverata e avvolta dalle tele dei ragni.

Quando, molto tempo dopo, tornai, la prima cosa che feci, appena spalancata la finestra per far uscire l’aria di chiuso e di muffa, fu alzare lo sguardo per vedere se era ancora lì.

Ovviamente, c’era. Molto polverosa e ancora più malinconica, forse perfino appena sbilenca, ma c’era.

Esitando mi avvicinai all’interruttore, un gesto una volta proibito e ora reso facile anche dal fatto che non mi pareva più altissimo come allora, tanto da dovermi alzare sulle punte dei piedi e tendere le dita per ruotare il pispolo di ceramica bianca.

Con mio grande stupore, la lampada si accese. Subito, senza nemmeno uno sfrigolìo. E mi parve emanare una luce più viva di quella che conservavo nei miei ricordi. Ripetei l’operazione. Funzionava davvero.

E fu così che, un po’ per nostalgia, un po’ per gratitudine e forse per quel naturale senso della sobrietà assorbito da piccolo, dopo averla spolverata l’ho lasciata al suo posto.

Mi ha fedelmente servito per altri trent’anni. Mai un cedimento, mai un’esitazione. Ha resistito agli sbalzi di tensione, ai fulmini e alle infiltrazioni durante i temporali. Ho cambiato nel frattempo il pericoloso interruttore degli anni ’60 e il decrepito portalampada, ma ho sempre voluto che la l’obsoleta lampadona rimanesse lì.

Solo l’anno scorso, cedendo alle raccomandazioni dell’elettricista, mi sono deciso a sostituirla con quelle modernissime, a led, garanti di luce potente a consumi irrisori. Tre euro l’una, ma vale la pena, dicevano.

Così, la lampadona è finita tra i cimeli domestici, in un posto d’onore ma comunque in pensione dopo almeno cinquant’anni di ineccepibile servizio.

Ci ho ripensato ieri sera, quando con un certo fastidio mi è toccato sostituire la quinta modernissima lampadina degli ultimi undici mesi.

Chissà che avrebbero detto la fattoressa o il terz’omo se fosse toccato a loro.