di URANO CUPISTI
Gli Eagles erano in testa alle classifiche nell’autunno del ’77, anche se io avevo in testa gli inni californiani di dieci anni prima. E per raggiungere la West Coast ci misi cinque giorni, volando da Ovest a Est. Che indimenticabile avventura…

 

Hotel California“, successo mondiale degli Eagles, era uscito neanche un anni prima ed era in testa alle classifiche. Ma ciò che mi spinse a partire furono le mie reminiscenze musicali generazionali, ossia la versione dei Dik Dik di “California Dreamin’” dei Mamas & Papas e “San Francisco“, sia nell’originale di Scott Mc Kenzie che nella cover di Bobby Solo, con i loro tormentoni-manifesto: “Ti sogno California / e un giorno io verrò” e “Se stai andando a San Francisco / non dimenticare di mettere qualche fiore tra i capelli“.

Così andai. Senza fiore, ma zaino in spalla.

Fu un’avventura da subito, già prima di arrivare in treno a Monaco di Baviera.

Lo so, sembra entrarci poco con la West Coast, ma il fatto è che avevo trovato un biglietto a basso costo con la compagnia aerea sovietica Aeroflot: sarei arrivato a San Francisco, ma partendo dalla città tedesca e volando sempre verso oriente: Mosca, ovviamente, poi cambio di aereo per Pechino via Novosibirski (Siberia), Ulan Bator (Mongolia). Cambio di aereo e compagnia per Hong Kong con la Catay Pacific, quindi scali a Tokio e Honolulu con la Jal (Japan Airlines). In pratica, quasi un giro del mondo in cinque giorni senza mai uscire dagli aeroporti, anche perchè non avevo alcun visto.

Il racconto del viaggio di andata varrebbe da solo un racconto, ma non voglio disperdermi.

Anche perchè in vita mia ho trovato pochi luoghi al mondo ho trovato eccentrici e sregolati quanto la San Francisco del 1977, coi suoi saliscendi a ridosso dell’affascinante baia, un autentico gioiello.

Non mi feci mancare nulla, ovviamente: dal  Golden Gate, il celebre ponte rosso che feci a cavallo di una bici a noleggio, Sausalito, la Muir Woods National Monument, il parco con le sequoie giganti, raggiunto con un autobus di linea, fino ai panorami su Russian Hill raggiunti a bordo delle cable car, i famosi e pittoreschi tram. Dall’alto delle colline potei tuffarmi nella tortuosa, fiorita e fotografatissima Lombard Street, una delle strade più famose al mondo.

I ritornelli musicali mi rimbombavano nella testa in ogni momento: il sogno di arrivare in California si era avverato e me lo volevo gustare per intero. L’aria che respiravo la poco a poco, diventava anche mia. Mi persi ovviamente nei quartieri più caratteristici in cerca della famose painted ladies, case dipinte color pastello, toccai con mano l’atmosfera della Chinatown immortalata in tanti film polizieschi, con i suoi fasci di lanterne rosse appese in mezzo alla strada, i ragoni decorati, i templi buddisti.

Non dimenticherò nemmeno l’anima chiassosa e scanzonata del quartiere Fisherman’s Wharf, il Ferry Building e il Ferry Plaza Farmers Market, emporio per buongustai dove la varietà e l’assortimento dei prodotti erano infiniti. Momenti indelebili passati sia al mattino a fare colazione seduto nei tavolini all’aperto o alla sera, al momento del tramonto con il sottofondo del garrire dei gabbiani, il gracidio lamentoso delle otarie e della musica di qualche artista di strada.

Non andai a visitare Alcatraz, la celebre prigione chiusa una decina di anni prima, perché gettonatissima e con una lista di attesa di settimane.

Ma la mia California non poteva certo fermarsi a San Francisco.

Così affrontai la costa del Pacifico con il mio sacco a pelo e l’autostop, senza alcuna padronanza dell’inglese, in un viaggio caleidoscopico, fatto di grandi spazi e magnificenze come la Pacific Coast Highway,  che con i suoi panorami mi  condusse fino a Los Angeles.

I paesaggi e il tempo si susseguivano, mai uguali. Si passava da un sole splendente a una nebbia fitta. Per fortuna i venti impetuosi dell’oceano spazzavano via tutto velocemente.

Santa Cruz con il suo faro, Monterey, Carmel, ricca di romanticismo, Point Lobos con la riserva naturale, Morro bay con il Morro Rock, un tappo vulcanico di 175 metri, Solvang, un angolo di Danimarca in California, ed infine i luoghi mitici legati alla città di Los Angeles, vale a dire Santa Barbara, Malibu, Santa Monica.

California mi parve davvero sogno destinato a non tramontare mai. Era l’american dream, il sogno che ha contagiato intere generazioni compresa la mia, reso famoso da musicisti, attori e registi leggendari.

Qualcuno si chiederà perchè, così suggestionato, non misi il fiore tra i capelli come suggeriva la canzone. Il motivo è semplice: già allora, ne avevo pochi.

E ancora non conoscevo il testo di quella che più di tutte allora sentii on the air: “Benvenuto all’Hotel California / puoi fare i bagagli tutte le volte che vuoi /ma non potrai mai ripartire“.