di FEDERICO FORMIGNANI
Il rapporto tra italiani e austriaci è sempre stato agrodolce, tanto nelle eredità linguistiche, quanto in quelle di costume, architettoniche e, perfino, gastronomiche.

 

“…Cosa far del gran Radeschi? L’un dicea: farne un decotto / porlo in gabbia quale orsotto e portarlo a far veder”. Questa era una delle tante idee che il popolino di continuo sfornava – a cavallo dell’Ottocento – con la speranza addirittura ossessiva di togliersi dai piedi per sempre questo ingombrante personaggio, autentico “bastone” dell’Austria dominatrice. E lui, il grande conte Radetzky, temuto e ammirato (specie dalle dame ambrosiane) popolare al punto d’aver seminato di figli illegittimi i navigli milanesi, ne conveniva (…il paese non ha mai amato e non amerà mai i tedeschi).

Odiato sì, ma anche rispettato, il feldmaresciallo austriaco. Non come il suo imperatore, Francesco Giuseppe, del quale si diceva: “…aritmetica de frèsch, zero e zero fà Francèsch’ (aritmetica nuova, aggiornata: zero più zero uguale Francesco).

In questo continuo e velenoso ping-pong verbale, gli austriaci non erano da meno: la loro considerazione per gli abitanti della grande Milano, avamposto dell’Impero, era pari a uno dei due zeri di Francesco Giuseppe: ‘…milanes state grante poltrona; manciar troppe pusècche, risòtt; fare cacca se spara cannona; quando ved facce nécher croàtt, andà scappa in cantine con gàtt!”. Non era comunque impresa facile aver a che fare con gli austriaci e i milanesi lo sapevano. Dalle parti di Pavia, all’epoca delle Cinque Giornate, Radetzky aveva ammassato le truppe imperiali che, poverette, si lamentavano per l’assoluta insufficienza dei vettovagliamenti; questo l’imperioso comando del gran capo militare: “…mangiate sassi, bevete acqua e andate avanti, che per tre giorni non si muore”.

Verso la metà del XII secolo a Venezia c’è il Fontego de’ Tedeschi, sede naturale dei mercanti che facevano la spola con l’Italia. Nel 1424 tale Maistro Zorzi de Nurmbergo compila un lessico veneziano-tedesco. I rapporti, negli anni che seguono, sono poco culturali e molto militareschi. Nuove parole arrivano tra noi: “alabarda, borgomastro, brindisi” (retaggio quest’ultima delle soldataglie Lanzichenecche). Gli scambi commerciali ci regalano i “bezzi” (nel dialetto veneziano bessi, soldi) e i “talleri”. Nel Dizionario Militare del Grassi (Torino, 1833) figurano alcune voci del XVII secolo: la “patrona” (cartucciera) e la “provianda” (vettovaglie): “…non è voce nobile, ma è tecnica e dell’uso”, precisa il Grassi. Nel Settecento troviamo “caffeaus” e alcune parole di chimica e mineralogia: “feldspato, cobalto, volframio”. Passando alla gastronomia, le cose migliorano. Ecco come Padre Bresciani, nel 1839, descrive una delizia del palato: “…non venner eglino pistori e fornai, che vi regalarono que’ cornetti attorcigliati, cui ruba ogni dilicato sapore quel nomaccio di Kiffels?’. Con le delicatezze del mattino, alle quali si uniscono gli “strudel” e la “torta Sacher”, arriva anche la “wiener-schnitzel”, altrimenti detta “cotoletta alla milanese”.

Annosa questione, quella della cotoletta. I milanesi la fanno risalire ai tempi di Ambrogio, quando si parlava di lombulo cum panitio, ma non ditelo ai viennesi, per i quali la cotoletta impanata è un loro esclusivo copyright. Piatto sempre gradito ai due popoli, comunque, anche in periodi di forti contrasti politici. Ne fa fede la “commanda” niente affatto gentile dei militari di Raderzky all’Osteria della Cervetta, in contrada Rebecchini: “… porta manzo, cotolette, vino bono, ciardinetto; presto, porta cortèl netto. Presto, porco camariere, non conosca tuo dofere?’

Certo, i guai fra gli italiani e gli austriaci avevano avuto inizio dopo il Congresso di Vienna del 1815 che aveva dato il Lombardo-Veneto all’Austria. Ma prima della meteora napoleonica il nord Italia aveva flirtato, è il caso di dirlo, con l’illuminato Settecento di Maria Teresa. Dalla Pace di Aquisgrana in poi, molte cose erano cambiate (in meglio). Un taglio netto era stato dato allo strapotere della Chiesa, limitandone la giurisdizione, riducendo il numero dei conventi, rimuovendo persino edicole e tabernacoli in molti incroci cittadini. Erano state riordinate le amministrazioni civiche (si pensi al famoso Catasto Teresiano di Milano) mentre prendevano corpo le Pie Fondazioni e si dava grande impulso alle attività commerciali. Milano poi, con la presenza del Piermarini e per volere della sovrana, cambiava volto.

Non più strade strette e tortuose, ma grandi palazzi e ariose prospettive: Palazzo Reale, del 1778, con la sua bella facciata neoclassica; il Palazzo Arcivescovile, i palazzi Belgioioso, Cusani, Serbelloni. Che dire poi della Scala, famosa nel mondo intero. E a Francesco Giuseppe si deve, nel 1826, la ripresa dei lavori per l’Arco della Pace, dedicato alla pace europea del 1815. Un’epoca, quella imperiale, non a torto giudicata wunderbar.