di URANO CUPISTI
Nel 1965 la massima città portuale degli USA era considerata un luogo pericoloso. Infatti la visitai sotto scorta. Ma conobbi lo slang locale e i luoghi dello scrittore gotico per antonomasia.

 

Nel 1965 mio padre, che spesso accompagnavo nei suoi viaggi da marinaio, cambiò compagnia di navigazione.

Entrò nella Carboflotta di Genova, proprietaria di alcune navi chiamate bulk carrier (più meno “portarinfuse”), ovvero mercantili per trasporto di carichi “sfusi”. Il carbone era tra questi.

La nave si chiamava Guido Donegani (una sua rara foto è qui) Ricordo bene quella “B” bianca e gigantesca, impressa sul fumaiolo nero.

Era in onore di Giovanni Battista Bibolini, ingegnere, imprenditore, armatore, dirigente sportivo italiano, senatore. Uno che si costruiva le navi nel cantiere di proprietà a Muggiano, nel golfo della Spezia. Proprio in quel cantiere fu varata appunto, nel 1955, la Guido Donegani: 180 metri di lunghezza e una linea avveniristica per quei tempi, con il ponte di comando al centro e la zona macchine a poppa.

Le rotte che faceva erano fisse: da Genova o La Spezia verso Baltimora o Filadelfia.

Nell’anno 1965 i viaggi-premio per la mia promozione scolastica furono addirittura due: uno verso la più grande città del Maryland e un altro nella città il simbolo della Pennsylvania

Ci vollero tredici giorni di navigazione per raggiungere la prima, Baltimora. Allora era considerato il più importante porto degli Stati Uniti e, come tutte le aree portuali, segnalato come luogo altamente pericoloso.

Per questo mi fu difficile muovermi senza la “scorta di bordo”. Tutte le visite a terra furono programmate solo in compgnia di chi era libero dal lavoro e poteva accompagnarmi.

Riuscii a vedere le vestigia dei tempi coloniali per l’arrivo e lo smistamento degli schiavi africani e ciò che restava dei graffiti di sapore antibritannico. Non mancai nemmeno di visitare la vicina Washington D.C., capitale degli USA, che raggiunsi a bordo di un mitico treno Amtrack.

A prima vista, Baltimora mi sembrò soffrire di una sorta di complesso di inferiorità nei confronti di città vicine come Filadelfia, la stessa Washington DC e la non lontana New York City. Ma non mi sfuggirono le tracce di una precisa identità locale.

Il porto era pieno di navi storiche ormeggiate, come il sommergibile USS Torsks della Seconda Guerra Mondiale e l’antica USS Constellation, splendido veliero varato nel 1854. Poi c’erano i quartieri come Inner Harbor, Fells Point, punto di riferimento per l’intrattenimento dei marinai, l’immancabile Little Italy e Mount Vernon, il tradizionale cuore culturale e artistico cittadino. Il passato era testimoniato dalla Colonna di Washington e soprattutto dalla cattedrale cattolica, la più antica degli Stati Uniti nonchè sede della potente Arcidiocesi di Baltimora.

Ma la cosa più unica che rara, quella che davvero mi sono portato dietro da quell’esperienza fu il contatto col “baltimorese”, il tipico accento locale, un po’ sguaiato, biascicato si potrebbe dire, molto chewing-gum. E la visita alla casa di Edgar Allan Poe nonchè alla sua tomba, nel cimitero di Westminster Hall and Burying Ground. Un omaggio dovuto all’autore de Il pozzo e il pendolo”, novella divenuta un film-cult della mia giovinezza.

Grazie a quell’approfondimento “de visu” nei luoghi dello scrittore, considerato uno dei più grandi e influenti della letteratura americana, ne scoprii le virtù di autore non solo di trame horror ma anche di fantascienza e di avventura, per non dire della sua poesia e del cosiddetto “maledettismo”. Ne conobbi la vita provocatoria, pericolosa e asociale di consumatore di alcool e droghe. Insomma il mio fu, a suo modo, un viaggio anche molto letterario.

Strana coincidenza, se all’andata, con le stive vuote, la navigazione era stata accettabile fatto salvo qualche “ballo” tra i marosi, non altrettanto potè dirsi del ritorno, che mi riservò sorprese “gotiche” in vago stile Poe. Carica di carbone e sprofondata nell’Oceano fino al limite della linea di galleggiamento, la motonave mi dette parecchi brividi e mi fece capire davvero com’era la vita di un marittimo. Fino allo Stretto di Gibilterra, lo confesso, pregai qualcuno affinchè mi facesse riabbracciare i miei cari. Fu come navigare per due settimane sotto il famoso pendolo