Nel caro-vacanze 2023 (e anche prima) mancano anche e soprattutto sobrietà e buon senso: spesso basterebbe fare scelte diverse per godersi ferie economicamente sostenibili senza mangiarsi il fegato.

 

Non eravamo poveri in canna.

Anzi, diciamo che avremmo potuto largamente permettercelo.

Ma mio padre era inamovibile: all’autogrill ci si ferma solo per la benzina, il bagno e al massimo il caffè. Le vettovaglie per il viaggio ci si portano da casa.

Non si trattava di tirchieria, ma di una questione di principio. Lui infatti era convinto che le aree di servizio lungo le autostrade fossero un rapinoso paese dei balocchi pensato apposta per lucrare a prezzi folli sui consumi inutili dei gitanti con famiglia al seguito.

Forse esagerava, ma nella sostanza aveva ragione. E, sebbene con minor rigore, applicava la stessa logica ai locali pubblici nelle località turistiche, locali che infatti frequentavamo pochissimo. Lui preferiva di gran lunga poche e magari costose soste in luoghi di qualità a un quotidiano stillicidio vacanziero di costose porcherie.

In pratica, visto quello che sta succedendo in Italia col cosiddetto caro-vacanze (ma a dire il vero non è che nelle altre stagioni le cose vadano molto meglio), oggi il mio augusto genitore avrebbe forse perfino rinunciato, sempre per le questioni del medesimo principio, a quella che allora si chiamava villeggiatura.

Ho cominciato a ripensare a certe trasferte sparagnine e interminabili, ai thermos col caffè e l’acqua del rubinetto, ai panini preparati dalla fantesca prima della partenza, avvolti nella stagnola e riposti in un cestino o (tocco di inusitata, lussuosa modernità) in una borsa frigo di prima generazione, e poi a tanti coni di gelato consumati a passeggio e mai seduti ai tavoli del bar, leggendo della scia di scontrini-rapina emessi in queste ultime settimane in mezza Italia e delle conseguenti polemiche, dibattiti, scontri verbali.

A costo di apparire pilatesco, o cerchiobottista, o banale, ho maturato la convinzione che la verità sia, se non nel mezzo, nemmeno tutta da una parte o dall’altra.

E che l’indubbia componente furbesca del commercio, comunque alimentata dall’inesorabile legge della domanda (la quale evidentemente non manca) e dell’offerta, si mescoli da un lato con l’innegabile impennata generale dei costi di beni e servizi che tutti (gestori compresi, quindi), in ogni settore, stiamo da tempo sopportando e, dall’altra, col comportamento mediamente stolido del cliente.

Cliente che se, come è giusto, si indigna dei prezzi esosi (ma comunque quasi sempre esposti, basterebbe guardare!), poi però, anzichè girare i tacchi e rinunciare o cambiare locale, alla fine acquista comunque. Facendo così salire una domanda che a sua volta fa crescere i prezzi o contribuisce a mantenerli alti. Una logica non dissimile vale per la qualità: se pago troppo per una qualità scadente, o anche se è solo la qualità a mancare, a prescindere dall’entità del prezzo, basta fare una croce su quell’esercizio e rivolgersi altrove.

E invece non succede.

Ecco, in sintesi il punto fondamentale mi pare questo: nessuno vuole rinunciare a nulla o accontentarsi di meno, ma anzi lo vuole in ogni modo e solo alle tariffe adeguate al proprio portafogli. Il che mi pare uno dei tanti impraticabili portati della società signorile di massa.

Venezia, Firenze, la Costa Smeralda, la Versilia sono care, anche a prescindere dal fatto che lo siano in assoluto o che lo siano in relazione alle mie possibilità economiche? Bene, non ci vado. Il tale bar mi fa pagare lo zucchero che metto nel caffè? Basta andare a quello accanto o fare a meno della bevanda (per una tazzina in meno non è mai morto nessuno).

Insomma, la soluzione sarebbe semplice e la dovrebbe dettare prima di tutto il buon senso: ciò che è o ci appare troppo costoso e non è indispensabile, non si compra.

Come, pare, sta accadendo in Puglia, dove il turismo medio sta traghettando sulle spiagge dei dirimpettai albanesi. Si chiama concorrenza, o rapporto qualità/prezzo. Roba assolutamente normale. Starà alle imprese pugliesi cambiare target o riparametrarsi.

Rovesciando il discorso – un discorso nel quale mi rispecchio molto – si potrebbe anche dire che forse siamo noi ad essere diventati troppo poveri per permetterci certe cose, non le cose ad essere diventate troppo care. Casi estremi inclusi, si capisce.

Però, anche qui, ce ne sarebbero da dire.

Ha ragione il vacanziere a lamentarsi se la bottiglietta d’acqua al chiosco sul lungomare gli costa tre euro? Detto così, certamente sì. Molto meno se per dissetarsi scende da una bici che di euro ne costa tremila,  se addosso ha abbigliamento tecnico per un altro migliaio di eurini e se la sera non batte ciglio per lo spritz a venti.

In fondo ai giochi, con un po’ di sobrietà in più si vivrebbe forse tutti molto più serenamente ed elegantemente.