VIAGGI&PERSONAGGI, di Federico Formignani
O anche “delle tre parole”: samda (le  cose che abbondano: vento, pietre e donne), sammu (le tre che mancano: ladri, mendicanti e porte) e samnyŏ (le tre cose belle: la gente, i paesaggi e la frutta).

 

Sono passati tanti anni dal mio viaggio nella Corea del Sud. Era il 1996 ed è normale pensare che sia cambiata così come è cambiati il nostro paese. Ma il ricordo è intatto e gli appunti presi e conservati lo vivificano a tal punto che trovo naturale poterne parlare compiendo un salto mentale a ritroso nel tempo, con il filmino che scorre nitido a ricomporre le differenti visioni.

La prima immagine è quella di Seo Yoon-suk (Seo è il cognome, Yoon-suk il nome). La graziosa e gentile studentessa universitaria mi dice che ha frequentato per un anno l’Università di Perugia per stranieri; non si direbbe, valutando l’italiano e l’inglese piuttosto incerti con i quali cerca disperatamente di soddisfare le mie molte domande. Siamo vicini di posto nel breve volo verso l’isola di Cheju e Yoon-suk – una volta sicura del fatto che mi è simpatica e non mi scompongo per le sue esitazioni linguistiche – si sforza di creare un clima di confidenza dicendomi entusiasta che quella che stiamo per visitare è detta in Corea l’”isola delle tre parole”: la prima è samda, che indica le tre cose che abbondano: vento, pietre e donne. La seconda è sammu, che certifica tre realtà che nell’isola mancano: ladri, mendicanti e porte; infine samnyŏ, parola che ricorda i tre aspetti piacevoli del luogo: la generosità degli abitanti, la bellezza dei paesaggi e la frutta dolce e succosa.

Il breve volo dalla cittadina di Mokp’o, nell’estremo sud ovest della penisola coreana, si snoda su un panorama incredibile di isole e isolotti sparpagliati lungo le coste frastagliate di questo estremo lembo della penisola. Al colmo del decollo l’aereo è già pronto per scendere, ma lo spettacolo sul mare sottostante continua; sembra che qualcuno si sia divertito a gettare sulla distesa delle acque ampie manciate di roccia e di verde. Alcune isole sono infatti nere e brune, minuscole scaglie di granito conficcate a viva forza nel mare; altre sono interamente coperte di un verde compatto e brillante. Un gran numero di queste isole, mi informa Yoon-suk, anche molto distanti una dall’altra, fanno parte del Parco Nazionale Tadohae Haesang la cui isola più nota è quella di Hongdo, famosa per le sue foreste di camelie e per le insolite formazioni rocciose.

Mettendo piede nella Cheju-do (do sta per regione, e questa è una delle nove della Corea del Sud) così come in ogni altro luogo coreano, è sufficiente ricordarsi due semplici frasi: la prima è shillae amnida (mi scusi), indicata nel rivolgersi a qualcuno per un aiuto o un’informazione; l’altra è kamsa amnida (grazie) una volta soddisfatta la richiesta. Se poi il tutto è accompagnato da un atteggiamento amichevole e da un viso sorridente, non è escluso che si ricevano alcuni simpatici inchini appena accennati col movimento del capo; il colloquio (si fa per dire, perché anche l’inglese è poco conosciuto) potrà continuare, se non altro a gesti. Questo è un paese lontano migliaia di miglia da casa nostra, quindi ogni contatto umano ha il sapore dell’avventura. Piccola, ma pur sempre avventura.

I coreani sono persone corrette, rispettose, sempre gentili e disponibili, specie con i forestieri. Anche a loro capita però di discutere animatamente e alle nostre orecchie, quando questo avviene, arrivano mitragliate di parole velocissime e cadenzate dalla tipica troncatura fonetica determinata dal forte accento che cade sulla parte finale delle frasi, sulle vocali che sono addirittura dieci, ben distinte le une dalle altre. Viene istintivo pensare che litighino, ma non è così, mi rassicura Yoon-suk: è il suono della loro lingua, meno gutturale e cupo rispetto a quello giapponese, anche perché molto differente; il coreano appartiene infatti al ceppo uralo-altaico: come l’ungherese, il mongolo e il finnico.

Questa è la “terra del calmo mattino”, dice Yoon-suk scrutandomi attenta per vedere l’effetto delle sue parole. Cheju è l’isola più grande del paese, grande tanto da contenere otto volte l’isola d’Elba e noi percorriamo col pulmino una grande strada che ne compie il periplo. Cheju, sussurra sorridendo la mia accompagnatrice, oltre ad essere l’isola degli innamorati, delle lune di miele, è l’isola delle quattro stagioni ed è orgogliosa del loro alternarsi; stagioni ricche di colori e profumi che specie nell’area del monte Hallasan si dispiegano in tutta la loro bellezza e aromaticità. Essendo un’isola di origine vulcanica (il monte principale è un grande vulcano non più attivo) è ricca di suggestivi scorci panoramici e di luoghi naturali unici, come la Roccia Yongduam, una formazione basaltica alta circa dieci metri alla quale i venti e le onde hanno dato la forma di una testa di drago; nel mare circostante, aggiunge Yoon-suk, lavorano ancora oggi le Cheju Haenyŏ, le pescatrici subacquee che si tuffano alla ricerca di ostriche e molluschi. Un altro luogo tipico è nel sud dell’isola: la rotonda collina Sangbangsan, alta quattrocento metri: la leggenda vuole che questa cima sia stata strappata dalla sommità del monte Hallasan, lasciando il posto a un lago. Poco oltre, lungo la costa di Yongmŏri, ricca di scogliere e di archi naturali, vi è una seconda formazione basaltica sempre a forma di testa di drago (animale fantastico molto amato dai coreani) prossima al monumento dedicato a Hendrik Hamel, un marinaio olandese naufragato a Cheju nel 1653. Fu il primo occidentale a lasciare testimonianze scritte della sua permanenza in Corea. A Sŏgwip’o, seconda città dell’isola, c’è la cascata Chŏngbang alta ventitre metri e larga otto: l’unica in Asia a gettarsi direttamente in mare. Nel villaggio di Sŏng-ŭp, ai piedi del monte Hallasan, assistiamo alle lezioni in una scuola confuciana ma, soprattutto, accogliamo l’invito di una famiglia del paese per il pranzo di mezzogiorno e per visitare una tipica casa coreana.

Yoon-suk mi ha avvertito per tempo: ci si deve togliere le scarpe entrando ed è bene che siano piedi con le calze, perché i piedi nudi possono offendere le persone anziane. La padrona di casa, una donna di mezza età dal viso rotondo e sorridente, indossa la ch’ima (gonna) e la hanbok (giacca in versione femminile) della tradizione coreana e ci fa sedere a gambe incrociate sull’ondol, il pavimento coperto di carta oleata spessa, passata con diverse mani di lacca. Sotto i pavimenti vi sono i condotti di pietra o di cemento nei quali scorre l’aria calda e il fumo. Su questo pavimento comune a tutti i locali della casa, i materassi e i tavoli (bassi!) vengono messi dove è più comodo; i coreani non dispongono di camere tradizionali come le nostre. Dopo un’infinita serie di inchini, sorrisi e tentativi di colloquio, con Yoon-suk finalmente felice di esercitare il suo ruolo di interprete, è il momento del pasto. La cucina coreana è per natura ricca di aromi e gusti particolari; fra i condimenti più usati troviamo l’aglio (onnipresente e in tutte le ore della giornata!), il peperoncino, lo scalogno, la salsa di soia, una pasta fermentata di fagioli, lo zenzero e un olio di semi di sesamo. Yoon-suk ha preventivamente fatto escludere il kimch’i, piatto nazionale coreano a base di cavolo fermentato in salsa di peperoncino (molto piccante!) chiedendo di ripiegare su un ottimo pulgogi a base di carne di vitello; sono pezzi di carne marinati in aglio e altre spezie che vengono cotti direttamente sul tavolo usando un cono tronco di metallo (all’interno un fuoco di carboni) sui cui lati vengono messe le fettine di carne per la cottura; pulgogi, quindi, accompagnato dal pibimpap: un misto di riso, ortaggi, uova e salsa piccante. Pasto consumato in silenzio e sorrisi, come vuole la tradizione coreana, con i doverosi complimenti finali alla padrona di casa, molto apprezzati.

Rimangono due mete da visitare: il picco Sŏngsan Ilch’ulbong (picco dell’aurora), un cono vulcanico che accoglie nella sommità un ampio cratere a forma di corona, con numerosi picchi rocciosi che lo circondano tutto e la salita del monte Hallasan il cui cratere della sommità, largo circa due chilometri, ospita un bellissimo lago. Prima di lasciare l’isola, suggerisce Yoon-suk, è bene munirsi del simbolo portafortuna: il tolharubang o nonno di pietra, una statuetta beneaugurante scolpita in pietra lavica.