Oggi è la Giornata Mondiale dell’Asino. Un pensiero a chi, giornalista-asino, resta tale anche se, cambiando mestiere senza saper fare neanche quello di prima, si ricicla nelle attività affini.
Che l’asfissia professionale da mancanza di reddito abbia condotto la stragrande maggioranza dei giornalisti, autonomi e non solo, a cambiare mestiere, o a dedicarsi a succedanei del medesimo, è cosa talmente assodata da non meritare ulteriori commenti. Salvo forse il fatto che anche i pochi superstiti non dilettanti puri hanno ormai pure loro i giorni contati.
Quindi una prece e voltiamo pagina.
Del fenomeno mi interessa invece approfondire un effetto collaterale assai preoccupante, che ha radici lontane ma si manifesta solo da poco in tutta la sua imponenza: chi, a qualunque livello, era un giornalista-asino resta un asino anche quando smette di fare il giornalista e si ricicla nelle attività affini. E le conseguenze sono pessime.
Come tutti i lavori, infatti, anche il nostro richiederebbe studio, preparazione, esperienza, buoni maestri.
La progressiva scomparsa di questi ultimi per l’inesorabile impoverimento delle redazioni e il mancato rimpiazzo con figure dello stesso spessore umano e professionale aveva già minato in partenza, una ventina d’anni fa, il trasferimento del sapere verso la generazione successiva, sopprimendo così sul nascere una catena di trasmissione di formidabile efficacia.
Quegli allora nuovi colleghi hanno quindi, nella stragrande maggioranza dei casi (e non è certo colpa loro), dovuto imparare da soli, al prezzo di gravi danni e ancora più gravi lacune.
Ciò che i loro successori hanno potuto apprendere è stato perciò assai poco. Spesso nulla.
Si arriva così al tempo di chi, appunto, si trova costretto a cambiare mestiere senza però neanche saper fare quello di prima. Un’implosione dai risultati catastrofici, perchè dissemina di nuova e dilagante incompetenza anche occupazioni e mercati paralleli (uffici stampa, pubbliche relazioni, copywriting, comunicazione, web) che spesso già non brillano.
E’ una sconfortante mancanza d’abbaco che si riscontra ogni giorno. O che forse notano solo quelli che, per ragioni anagrafiche o per acume personale, sono in grado di riscontrarlo. Mentre tutti gli altri, inconsapevoli, si annoiano a morte, senza comprenderle, delle lamentele di chi ne sa più di loro.
Il che mi riporta alla mente un aforisma di autore a me ignoto, ma folgorante: “Quando sei morto, non sai di essere morto e chi soffre sono gli altri. La stessa cosa accade quando sei stupido (o incapace, ndr)“.