Valorizzazione e tutela oggi non possono prescindere dall’analisi organolettica, ma il futuro è nell’innovazione tecnologico-scientifica. I dibattiti di AIRO e Regione Toscana lasciano aperte però altre delicate questioni.

 

Per una curiosa coincidenza, alcune settimane fa Firenze ha ospitato, a distanza di un solo giorno l’uno dall’altro, due importanti eventi riguardanti l’olio extravergine di oliva. Quella risorsa italiana che, però, il nostro paese proprio non riesce a mettere a frutto, nè a preservare.

E per il quale le due conferenze hanno indicato una sorta di curioso percorso binario, o di vie parallele, su cui vale la pena di riflettere un attimo.

Il primo evento è stato la V edizione di “Taste the difference“, appuntamento organizzato dall’AIRO (l’Associazione Italiana Ristoranti dell’Olio). In programma, una tavola rotonda dal titolo così stimolante da avermi convinto subito a fare da moderatore: “Il racconto dell’invisibile: profumi e aromi a confronto“. L’idea era mettere davanti a un campione di extravergine nasi professionali, ma estranei al settore, e far annusare loro il prodotto, per capire quali siano da un lato l’approccio metodologico e dall’altro il linguaggio descrittivo con cui specialisti in altri campi dell’analisi organolettica si avvicinano all’olio di qualità. Scopo finale: scoprire come, partendo dal suo profumo, si costruisca e si divulghi un prodotto.

Dietro al tavolo, col sottoscritto, la prima ed unica fragrance designer d’Italia, Claudia Scattolini, l’esperto di caffè Massimo Barnaba, il sommelier e giornalista Massimo Castellani e il professor Luca Calamai, gascromatografista dell’Università di Firenze.

Ne è nato un dibattito molto interessante, che ha rivelato due aspetti: tanto l’estrema differenza, tra degustatori che “lavorano con il naso” e quindi di pari e collaudata sensibilità olfattiva, nel descrivere e associare fra loro il ventaglio di sentori percepiti nell’extravergine, quanto il ruolo fondamentale che i sensi umani sono ancora in grado di svolgere nell’indagine critica sugli alimenti. Perchè se è vero, come ha sottolineato Calamai, che la scienza ci mette oggi in grado di riconoscere la zona di provenienza di un olio attraverso la misurazione dei terpeni in esso contenuti, allo stato attuale nessuna tecnica o analisi chimica può giudicare le sfumature di un extravergine meglio dell’uomo. Messaggio rassicurante e al tempo stesso inquietante.

Il secondo evento è stato il talk show allestito dalla Regione a latere della presentazione della Selezione annuale degli oli extravergini dop e Igp della Toscana. A legarlo al convegno del giorno precedente, oltre all’argomento, anche l’intervento del professore dell’ateneo fiorentino Alessandro Parenti, assaggiatore e capo panel oltre che docente, presente in ambedue le circostanze.

L’esito del dibattito su “L’olio del futuro” – che ha visto impegnati anche l’assessore all’Agricoltura e vicepresidente della regione Stefania Saccardi, Gaia Meoni dell’Università di Firenze CERM e Chiara Cherubini di Analytical – è stato di segno apparentemente opposto al primo: il domani dell’extravergine (toscano e non, ovviamente) è, in sintesi, legato a filo doppio all’innovazione tecnologica dei sistemi di trasformazione per quanto riguarda la qualità finale e all’adozione di tecniche analitiche sofisticate (come la risonanza magnetica nucleare, che in pochi minuti e con l’utilizzo di quantitativi minimi di prodotto consente di individuarne l'”impronta digitale“) per riconoscere l’autenticità e le caratteristiche chimico-fisiche del campione. Una filiera metodologica, si è detto, che trova un suo sbocco di utilità anche nel miglioramento delle tecniche agronomico-colturali e nelle pratiche di frantoio.

Su questa scommessa la Regione Toscana ha puntato attraverso un bando Pnrr da 22 milioni di euro, destinato all’incentivazione di metodi innovativi di coltivazione e di gestione delle acque, di impianti sperimentali e dell’agricoltura di precisione, e un altro da 8,3 milioni per il rinnovamento dei frantoi oleari attraverso tecnologie sostenibili e il riutilizzo degli scarti.

Ma il doppio approccio umanistico-epistemologico all’extravergine pare lasciare aperte alcune questioni non secondarie di natura concettuale.

Se la battaglia per la tutela e la valorizzazione della qualità legale e sostanziale dell’olio appare infatti non solo sacrosanta, ma probabilmente l’unico strumento rimasto per garantire un domani sia al prodotto virtuoso che conosciamo, sia a tutto ciò che sta a monte di esso e a valle di esso, continua a sfuggire al dibattito un equivoco latente, che forse è giunto il momento di affrontare.

Quando si parla di comunicare le qualità dell’extravergine, ossia di trasferire al consumatore e rendere comprensibili, anche in ottica di incentivazione dei consumi e di sostegno dei prezzi, i messaggi tecnico-qualitativi che emergono dalla scienza e dalla comunità degli addetti ai lavori, siamo sicuri ad esempio che l’accostamento automatico col mondo del vino – ossia al lessico vinicolo, ai suoi riti, ai suoi parametri, al suo sistema economico e commerciale e perfino al suo immaginario – sia quello più giusto?

Pensiamo ad esempio ai descrittori, sempre più mutuati dall’enologia, o agli apparati iconografici e ideologici più ricorrenti, che fanno appello a stereotipi, motivazioni di acquisto, meccanismi di vendita e propaganda efficaci forse per una bevanda come il vino, ma fuorvianti e magari perfino controproducenti se utilizzati per esaltare o invogliare a un condimento quale, oggettivamente, l’extravergine è e che pertanto prevede tempi, modalità, ritmi di consumo completamente differenti.

Credo dunque sia giunto il momento anche per un’innovazione lessicale e addirittura ideologica applicata a tutto ciò che è legato all’olio di qualità. Una presa di coscienza più matura del prodotto e delle sue origini, depurata e sfrondata dagli orpelli. O, almeno, cominciamo a parlarne.