Il più recente progetto di equo compenso induce spesso ad equivoci troppo ottimistici o troppo pessimistici sul futuro di una categoria che può solo sperare nel futuro anteriore. Se ci arriva.

 

Il mio resoconto dell’altro giorno sulle proposte avanzate dall’OdG al Governo per una soluzione del nodo dell’equo compenso giornalistico, che si trascina da un dodicennio, ha sollevato alcune reazioni e, purtroppo, alcuni fraintendimenti poi dibattuti sui social e in privato.

Fraintendimenti non sul merito (del resto mi sono limitato alla cronaca), ma sulle prospettive che avevo prefigurato.

Le reazioni sono state, in sintesi, di tre tipi.

Il primo: “tanto non serve a nulla, non cambia nulla“, etc.

Questo è, a mio parere, un parziale abbaglio. Certamente non cambierà nulla per il destino dei liberi professionisti di ieri e di oggi, sostanzialmente defunti sotto il profilo lavorativo. Cambia però del tutto l’orizzonte normativo visto che, se andrà in porto, il progetto ribalterà radicalmente, sotto il profilo procedurale e giudiziario, le posizioni di giornalisti ed editori. Non è tutto, nè molto, ma visto il ritardo con cui tutto ciò arriva, qualcosa è.

Il secondo (corollario del primo): “non è vero che i freelance sono morti, ce ne sono migliaia, i giornali non camperebbero senza di loro, etc“.

Altro mezzo abbaglio di natura tecnico-terminologica, dovuta all’abuso in senso generico dell’espressione freelance. Insomma, basta intendersi: se per tale si indica qualunque giornalista, o perfino non giornalista, che in una qualunque forma autonoma (partita iva o meno, monomandato o meno, abusivo o meno, inpgi o meno, gratis o semigratis o meno) produce contenuti che i giornali pubblicano, allora forse è vero che sono migliaia. Ma se per freelance si intende la figura corretta o almeno parzialmente corretta, ossia chi svolge in misura esclusiva, prevalente o significativa l’attività giornalistica propriamente detta, con iscrizione all’OdG, una posizione Inpgi e per più committenti, allora il discorso cambia e i numeri scendono drasticamente, fino ad azzerare il genus o quasi. Quindi a beneficiare delle nuove norme saranno i pochissimi che sopravviveranno e quelli che verranno (se verranno).

Il terzo è il più inquietante: “evviva, era ora, finalmente verremo tutti pagati decentemente e magari bene“.

Questo invece è un abbaglio a tutto tondo, per un motivo molto semplice: se tutto andrà in porto (e non è affatto detto, anzi) più si alzano le (giuste) pretese economiche di chi lavora, più si alzano quelle qualitative di chi il lavoro lo deve pagare. In altri termini: se c’è chi chi mi scrive un pezzo a 5 euro o gratis, uno vale l’altro. Mi costa poco, gli chiedo poco. Se però, ex lege, anche quel poco devo comunque pagarlo 50 o più, allora la mia selezione per prendere i più bravi, capaci, efficenti sarà comprensibilmente feroce. E lascerà sul campo il 75% di chi, attualmente, vivacchia arrabattandosi. Pertanto, a compensi decuplicati corrisponderà una decimazione dei compensati. E’ la crudele legge del mercato ma, onestamente, non mi sento di contestarla.

Alla luce di ciò, l’unica via di uscita che il sistema potrà trovare per salvarsi sarà portare a compimento il percorso di progressiva dilettantizzazione della categoria avviato con grande successo da qualche anno: la professionalità è diventato un optional spesso ingombrante e l’informazione è affidata alle mani degli hobbisty di bocca buona, che lavorano per passatempo in quanto vivono d’altro e che, così facendo, mettono fuori mercato chi avrebbe la pretesa di lavorare retribuito.

Riusciranno i pretenziosi a contrastare questa deriva? Ho i miei dubbi.