Proviamo a spiegare perchè Valoritalia, il compassato istituto che, tra gli altri, certifica la qualità e la sostenibilità di oltre il 60% delle doc vinicole italiane e non solo, sbarca a sorpresa sui social. Un motivo c’è. E non è banale.

 

Lo ammetto, ci ho messo un po’ a capirlo. E credo di non essere stato il solo, al termine della bella serata romana che giorni fa ha fatto da cornice alla presentazione del progetto.

La domanda era: cosa spinge un prestigioso e compassato istituto di certificazione come Valoritalia, diciamo pure un colosso nel campo dell’agroalimentare e della sostenibilità (per dire: 35 sedi, 230 Denominazioni di Origine dei vini certificate, pari a oltre il 60% del totale nazionale, migliaia di aziende biologiche, standard come Equalitas, Viva e Vinnatura o in equivalenza con altri standard internazionali come NOP in USA, COR in Canada, JAS in Giappone e Bio-Suisse in Svizzera) a dotarsi ex abrupto di uno strumento nazional popolare come un format social pensato apposta per comunicare al grande pubblico, quello che di norma fatica a comprendere il senso stesso del concetto di “certificazione” di qualcosa, quali siano le realtà che si avvalgono dei suoi servizi?

Piano piano, riflettendo e parlandone, la nebbia si è dissipata e il quadro mi è apparso più chiaro.

E meno ovvio dell’apparente.

E’ un passo che si potrebbe attribuire al lento slittamento, o forse perfino a una mutazione quasi semantica, del termine certificazione. Oppure, all’opposto, al transito, anzi all’espansione della nozione di certificazione dalle naturali plaghe tecnico-burocratiche a quelle della comunicazione e, di conseguenza, della promozione.

A pensarci bene, si tratta di una logica concatenazione di cause ed effetti: c’è un’azienda che investe risorse e strategie in quello che, all’occhio profano, appare un bollino prestigioso ma dalla sigla oscura, spesso tonitruante, irresistibilmente evocatrice di scartoffie. Qualcosa che, insomma, sotto il profilo tecnico-economico ha certamente un peso. Peso il quale però, così espresso, finisce per oscurare il lato vivo dell’azienda che ne beneficia, mettendone in ombra la componente concreta, umana, creativa, dinamica.

Qui nasce l’assunto fatto proprio da Valoritalia e tramutato in Link (proprio questo è il nome dato al format social lanciato a Roma): video di un minuto che raccontano “in modo fresco e frizzante (ipsi dixerunt) alcune delle realtà aziendali e dei territori che si affidano a Valoritalia per aumentare il valore aggiunto di prodotti e servizi“.

In altre parole, come ci spiega il direttore generale di Valoritalia, Giuseppe Liberatore, “La certificazione è sì un elemento che qualifica l’azienda, ma che non deve oscurarla negli altri suoi valori. L’impresa, anzi, ha tutto da guadagnare a usare quel bollino un po’ grigio come trampolino verso il mondo reale. Come, allo stesso modo, chi certifica ha tutto l’interesse a mostrare che, dietro le attestazioni, c’è qualcosa di tangibile“.

Pare l’anello di congiunzione tra mondi che già esistevano, ma parevano non comunicanti.

Mi sbaglierò, ma alla fine i fatti commerciali potrebbero dare ragione proprio a loro: non la chiusura del cerchio, ma la chiusura della filiera.