Con veroniche dialettiche che neanche Maradona, a colpi di “emendamenti” il sindacato formalmente approva e sostanzialmente affossa il documento deontologico acclamato due mesi fa (e riapprovato dall’OdG l’8 novembre) anche grazie al determinante contributo dei suoi rappresentanti. I quali ora, giustamente, si risentono. E, con loro, i 400 autonomi che lo votarono.

Tu chiamale, se vuoi, capriole. O imboscate. O bombe a orologeria. O ripensamenti. O intrighi di palazzo. O indecenze.
Fattostà che, tetragonamente fedele alla sua proverbiale ondivaghezza e ai relativi giochi di correnti e (co)interessi, il Consiglio Nazionale dell’Fnsi se n’è uscito ieri con una sortita – come dire? – improvvida.
A due mesi e mezzo dall’approvazione all’unanimità da parte dell’assemblea dei diretti interessati e a 10 giorni dall’entrata in vigore ufficiale della Carta di Firenze – il documento deontologico (vedi qui, qui e qui) che, in estrema sintesi, dal 1 gennaio chiama a corresponsabilità la catena di comando dei giornali che offrano ai collaboratori compensi meno che degni – il sedicente e autonominato “sindacato unitario dei giornalisti italiani” (che però conta meno della metà degli iscritti all’Ordine e a malapena un decimo dei lavoratori autonomi, quindi unitario de che?) finge di approvare la Carta ma, guarda caso, pretende di introdurvi tre “emendamenti“.
Il che, in pratica, equivale a sconfessare il testo e a chiedere di modificarlo.
Come, non si sa. Facendolo tornare al Consiglio Nazionale dell’Odg? E allora non perchè a una riconvocanda assemblea sovrana?
Insomma, l’avrete capito (e anche per questo non sto qui ad annoiarvi sulle sottilissime questioni di lana caprino-legale sulle rispettive competenze e nemmeno sulla bontà o meno degli emendamenti: chi ha tempo e voglia legga i link sotto): la questione è squisitamente politica.
Anzi, è una questione di potere (chi comanda di più tra i giornalisti, l’Ordine o la Federazione della Stampa?) e di guerra tra bande all’interno della spaccatissimo (ma sempre “unitario”, ci mancherebbe) sindacato.
Nel mezzo, a fare da burattini o, secondo i punti di vista, da carne da cannone, non solo gli oltre 400 giornalisti freelance, precari, cococo, abusivi, etc che, mossisi a spese proprie da tutta Italia, hanno animato la due giorni fiorentina e alla fine, dopo nottate passate in bianco a limare i dettagli, hanno licenziato un testo poi approvato all’unanimità, ma anche i sei rappresentanti dell’Fnsi mandati appunto dalla Federazione (nei medesimi giorni ufficialmente impegnata, guarda caso, a tener seminari a Fiesole) a far parte del gruppo di lavoro e quindi “garanti” in quota sindacale del contenuto finale della “Carta”.
Per capire e toccare con mano il loro sconcerto, la loro amarezza, il loro smarrimento e, diciamolo, la loro rabbia, leggetevi ad esempio cosa scrive qui uno di loro, Maurizio Bekar da Trieste, membro della Commissione nazionale lavoro autonomo.
Io, che c’ero e ho dato il mio contributo personale ai lavori, in questa sede mi limito a sottolineare solo un aspetto, il più grave e sconcertante. Quello che dà la misura dello sbando e del vicolo cieco nel quale la categoria dei giornalisti si trova anche per merito del peloso e malfidato paraocchi del suo (sempre presunto) sindacato.
Sebbene, come detto, la Carta di Firenze sia un documento di natura esplicitamente deontologica, e quindi di pertinenza chiaramente ordinistica, nel quale, in nome di un da me mai condiviso ecumenismo, l’Fnsi è stata coinvolta per le solite, pure ragioni di facciata, da parte dell’Fnsi stessa (che non rappresenta, lo ripeto, nemmeno un decimo dei colleghi direttamente interessati alla questione) è in corso il tentativo di disinnescarne l’efficacia e la credibilità.
Una posizione che arriva, non a caso, fuori tempo massimo e nel bel mezzo di un vasto dibattito sulla professione (abolizione dell’Ordine, statalizzazione della cassa di previdenza, etc).
Ciò che secondo alcuni è la riprova del diabolico machiavellismo confederale.
E che invece secondo me (e per fortuna secondo tanti altri) è la riprova della ormai inguaribile cecità di una congrega che ha perduto il senso della realtà. O che forse non lo hai mai avuto, se non per la difesa, ma a spese altrui, di ormai indifendibili interessi di bottega.
Quanto tutto ciò possa davvero contribuire a difendere detti interessi o invece a zavorrare ulteriormente una nave sul punto di affondare con tutti i suoi distratti e litigiosi passeggeri, non lo so. Così come non so, nè riesco a capire, quale miopia possa indurre l’empireo sindacale a scegliere strade così palesemente autolesioniste, proprio mentre è in corso un’imponente, strenua e a tratti – mi si consenta – perfino patetica campagna per riconquistare le “tessere” perdute tra la marea di autonomi che, nauseati dal sindacato menefreghista, ne sono fuggiti a gambe levate o saggiamente ne stanno da sempre alla larga.
O forse il costo della casta sta davvero tutto qui.