Quando di un passato lontano non resta più nulla […], l’odore e il sapore rimangono ancora a lungo, come anime, a ricordare, ad attendere, a sperare, sulla rovina di tutto il resto, a sorreggere senza piegare, sulla loro stilla quasi impalpabile, l’immenso edificio del ricordo” (M.Proust).

 

C’è stato un tempo, lontano ma non troppo, in cui la musica era uno dei poli della vita quotidiana e la tecnologia per riprodurla fedelmente era tutt’altro che l’elettronica di consumo conosciuta oggi. Era anzi il contrario.

C’erano sì la radio e il giradischi, con quest’ultimo che talvolta andava a 78, 45 e 33 giri (qualcuno anche a 16, da bambino ne ebbi uno, in legno e con la manovella: il suo girare mi ipnotizzava e lo chiamavo unkà), diffusi quasi in tutte le case e riuniti spesso in un unico mobile da salotto o soggiorno. Il popolare mangiadischi, riservato ai giovanissimi, venne dopo.

Dopo ancora venne lo stereo, il traguardo di ogni adolescente medio appassionato di musica.

Lo stereo – che si differenziava dal normale giradischi innanzitutto perchè, come dice il nome, riproduceva la musica in stereo e non in mono – si distingueva a sua volta in due grandi sottocategorie: gli apparecchi da battaglia, in pratica dei compatti senza pretese, ma con altoparlanti separati e due canali, e quelli di maggiore qualità, che già appartenevano o molto si avvicinavano all’hifi, cioè all’alta fedeltà. I secondi non erano integrati, ma suddivisi in unità separate: giradischi (con braccio e testina, ben diversa dalla “puntina” dei comuni giradischi), detto anche piatto, amplificatore e casse. “Lo stereo” per definizione era questo. E costituiva appunto il primo passo verso l’alta fedeltà vera e propria. O, se vogliamo, il minimo sindacale dell’audiofilìa. Ritenuto indispensabile per un ascolto serio della musica.

La concorrenza tra le due tipologie di cui sopra era accesissima, divisiva, perfino ideologica e coinvolgeva tanto gli utenti (veri o potenziali che fossero) quanto i rivenditori. Simbolo della prima era il famigerato Stereorama 2000 De Luxe venduto su Selezione del Reader’s Digest, il dibattito sulle effettive prestazioni del quale era in grado di dare vita a vere zuffe, combattute principalmente sulle pagine dei giornali specializzati, tra sostenitori e detrattori.

Oltre, c’era solo l’hifi.

E, bisogna ammetterlo, la differenza tra il povero Sterorama o simili e anche il più modesto degli stereo veri era abissale.

L’alta fedeltà era però roba da babbi ricchi e, socialmente parlando, corrispondeva più o meno alla versione tecnologica dell’antiquariato: costosa, elitaria, si comperava in negozi dedicati dove l’atmosfera era per definizione frusciante e aleggiava un’aura quasi mistica, di religiosa devozione, perfino chiesastica. Vi si entrava in punta di piedi superando pesanti porte di cristallo sempre luccicante e pulitissimo, rimirando a rispettosa distanza i futuristici frontali satinati, i vu meter saettanti, le lucine lampeggianti, i cursori dal movimento ovattato e dalle funzioni misteriose, le mille manopole a rotazione felpata e i giganteschi altoparlanti, con i coni dei bassi che pompavano come cuori impazziti, messi a muraglia uno accanto all’altro, commutabili tra loro grazie a connessioni indecifrabili che consentivano di testarli in sequenza, collegati al medesimo amplificatore e col medesimo disco-test, sotto il sorriso compiaciuto e tentatore del titolare del negozio, di norma incravattato, un po’ sussiegoso, tecnico ma dialettico al cospetto dei compratori dal capace portafogli. Tutti oggetti dal fascino proibito di cui noi, osannanti, conoscevamo marca e modello a memoria, ma che sapevamo mai ci saremmo potuti permettere: erano quindi meraviglie destinate a restare irraggiungibili e di cui, al massimo, vagheggiare a veglia.

Di essi in effetti si fantasticava e si dibatteva senza sosta, a scuola e negli interminabili pomeriggi di shopping virtuale nei negozi di cui sopra, lustrandoci gli occhi sulle prove e le prestazioni mirabolanti pubblicate su Suono e Stereoplay, per poi tornare a casa a contare gli spiccioli e spremerci il salvadanaio per capire come migliorare il nostro modesto impianto, faticosamente comprato a colpi di mille lire e ubicato nel punto privilegiato della cameretta accanto ai dischi destinati a diventare, ma questo già lo sapevamo, quelli della vita.

Poi, con gli anni, arrivava anche un altro momento decisivo: quello della scelta se investire i pochi soldi in vinili, accontentandoci dello stereo che avevamo, o inseguire all’infinito la chimera della perfezione acustica.

Io scelsi la prima via.

Tutto questo però aveva un unico comune denominatore, una morbida nuvola che trasversalmente abbracciava l’intero stereomondo, dai più sofisticati apparecchi artigianali americani a quelli giapponesi più economici, e che si allargava vaporosamente agli accessori, impregnava gli scatoloni, pervadeva i negozi e gli show room.

Era l’odore. L’odore dell’hifi. Anzi, il profumo: un profumo inconfondibile di cui, per ragioni oscure, quegli aggeggi parevano saturi. Lo emanavano da nuovi e riuscivano a emanarlo anche dopo anni di uso quotidiano. Era il profumo di cui potevi inebriarti ogni volta che (e accadeva più volte al giorno) aprivi il coperchio in plexiglas del giradischi o, con un morbido scatto, lo sportello del cassette deck (volgarmente detto registratore o piastra), o avvicinavi il naso all’amplificatore per regolare i potenziometri.

Era un sentore penetrante di plastica e di metallo, di olio minerale, di idrocarburi, di pietra focaia, di elettricità, anche di vinile forse. E che quindi faceva il paio con quello dei dischi, ma era perfino più intenso, più persistente. Un marchio di fabbrica, un allarme esistenziale, una madeleine olfattiva folgorante, indimenticabile, come lo spigo nel cassetto della nonna o certi sentori di casa che riconosceresti tra mille, capace di riaccendere flashback rapinosi, immagini estatiche, reminiscenze abissali, momenti fondamentali. Lo sentivi e scattava il click.

Quell’odore era ed è rimasto insomma, anche oggi, il mastice delle memorie musicali, il fil rouge impercettibile ma infrangibile che lega tra di sè migliaia di ascolti, esperienze sensorali, tempeste emotive, fantasie e aspirazioni di almeno un paio di generazioni.

Le neuroscienze dicono del resto che l’olfatto sia il più potente, evocatore e marcante dei sensi.

Nel caso dello stereo, non ci sono dubbi: dopo oltre vent’anni ieri ho alzato il coperchio un po’ impolverato del mio fido Pioneer PL12D e quel profumo mi ha investito come un soave schiaffo, risucchiandomi nel giorno in cui – dopo averlo collegato pieno di trepidazione a uno Scott a valvole di seconda mano (anch’esso ovviamente sopravvissuto finora nel mio armadio dei cimeli) in sostituzione del primo stereino Lesa del 1974, che a sua volta aveva sostituito il giradischi portatile Lesa mono del 1959, regalo di nozze dei miei genitori, su cui ascoltai i miei primi due Lp – nulla fu come prima.

Correva l’autunno del 1976 e quel profumo aleggia ancora.