Paolo Carù, notissimo commerciante di dischi, critico, giornalista ed editore, co-fondatore di riviste seminali del panorama rock italiano, è mancato oggi improvvisamente. Con lui si chiude – davvero- un’epoca.
Ci sono epoche che si chiudono. E ci sono epoche che si chiudono col fragore di una lastra di pietra che sigilla un sepolcro. O col rimbombo del portone di una cattedrale.
La scomparsa di Paolo Carú, avvenuta improvvisamente oggi, è una di queste. Anche se, pare, gli ultimi attimi della vita del notissimo commerciante di dischi, critico, giornalista ed editore si sono consumati nel profondo silenzio del sonno.
Chi ha frequentato l’ambiente discografico “adulto” degli ultimi cinquant’anni deve molto a Carú, nel bene e nel male un protagonista degli anni eroici del mercato discografico e dell’editoria musicale in Italia. Ho sempre comprato poco, in verità, sia nel suo arcinoto negozio di Gallarate, per anni comunque un’autentica mecca quanto a quantità e profondità del catalogo, sia per corrispondenza: Carú i dischi non li regalava, anzi, e le mie tasche non sono mai state alla sua portata. Ma le riviste che ha co-fondato, prima il Mucchio Selvaggio e poi l’Ultimo Buscadero, sono state per decenni dei punti di riferimento. Non solo per il ruolo che, checchè se ne dica, hanno avuto nei confronti di più di una generazione di appassionati, dei loro gusti e della loro formazione. Ma anche per le topiche, o per certe recensioni più o meno compiacenti. E per le fazioni che quei giornali erano capaci di creare in un panorama al tempo stesso ingenuo, frammentato, un po’ provinciale, acceso e affamato di informazioni.
Era certamente competente, Carú. Un grande collezionista e un esperto. Ed era senza dubbio un ottimo commerciante.
Non altrettanto si può dire della sua penna, ad essere sinceri. Certi suoi aggettivi (“sapido“, “talentuoso“), certi suoi incipit (“Chi è James Talley?“), certe sue sgrammaticature e certe prose non esattamente adamantine sono passate alla storia e divenute oggetto di culto o di dileggio tra i lettori.
Eppure la figura di Carú, e non solo per la stazza fisica o il barbone, incuteva una certa deferenza. Nessuno poteva negare il ruolo che aveva avuto e la sua pur controversa centralità nel panorama della critica rock italiana, se così si può definirla.
Apprendo ora che è mancato nel sonno.
Forse negli ultimi decenni la sua figura si era un po’ appannata, in parallelo del resto col ruolo della musica nella società e nella vita di tutti i giorni, ma non si può dire che fosse vecchio (aveva 77 anni). Ecco perché, con la sua morte, davvero si chiude un’epoca. Quella dell’innocenza, in fondo. Dell’idea che la musica fosse una stella polare, o un bastimento giunto saldo all’approdo e destinato a durare per sempre. Come anche Paolo Carú, in fondo, ci sembrava. Fino a oggi.