Oggi è il mio compleanno. Come mezzo secolo di dischi-caposaldo della mia vita, buttati giù senza pensarci troppo. Con tante scuse agli altri cinquanta, o cento, o centocinquanta, o mille che, lì per lì, non mi sono venuti in mente. Ma che comunque sono stati il più grande regalo che abbia mai ricevuto. Non è una top fifty, ma solo una carrellata. Anzi, una provocazione a tutti gli amici e i lettori: rinfacciatemi le omissioni e chiedetemene conto. My my hey hey, rock and roll is here to stay…

1) “In the court of the Crimson King”, King Crimson. Ciò da cui tutto ebbe realmente inizio. Cominciare dall’alto è sempre bello e qui eravamo nella ionosfera.
2) “Happy trails”, Quicksilver Messenger Service. L’apice di certa illusoria California. Un inno al “tramonto caldissimo” di bertoncelliana memoria.
3) “Tommy” (ost). “Ascolta Tommy con una candela accesa e vedrai il tuo futuro”, scrive Anita al fratello William in “Quasi famosi”. Io nel ’75 vidi il film di Russell e la lampadina non si è più spenta.
4) “Balaklava”, Pearls Before Swine. Più che un disco, un miraggio. Tom Rapp, carriaggi erodotei, visioni oniriche, misticismo lisergico.
5) “Late for the sky”, Jackson Browne. Uscito nel ’74, comprato l’anno dopo. Il disco perfetto. Un capolavoro che significa tutto.
6) “A love supreme”, John Coltrane. Ci sono dischi che insegui per tutta la vita, perché ogni volta ne trovi un nuovo senso. Questo è uno di quelli.
7) “A cut above”, June Tabor & Martin Simpson. Sintesi mirabile tra tradizione e canzone d’autore, umida di pioggia come l’Inghilterra d’autunno, grigio come i ’70.
8) “The wild, the innocent & the E street shuffle”, Bruce Springsteen. Semplicemente il più del disco del boss, selvaggio e innocente, un ventaglio irripetibile.
9) “Bryter layter”, Nick Drake. Questo almeno è un album meraviglioso, gli altri due sono montagne aspre e difficili da scalare. If songs were lines in a conversation, the situation would be fine.
10) “Catholic boy”, Jim Carroll. L’inconsapevole punto di confluenza tra NY poetry, songwriting, rock and roll, junkies e il buio ai margini della città.
11) “Easter everywhere”, 13th Floor Elevators. Ascoltare la versione di “Baby blue” vale da solo il flash che ti regala vedere “Tommy” per la prima volta.
12) “Marjorie Razorblade”, Kevin Coyne. “Se la vita ci soddisfacesse, fare letteratura non avrebbe senso” (Flannery O’Connor).
13) “Affairs”, Elliott Murphy. Minidisco, suoni secchi, nessun fronzolo, massima tensione emotiva, profumo di vinile, tra NYC che sfuma e l’Europa che si profila.
14) “A collection”, Anne Briggs. Mai sentita una voce così. Mai sentita tanta sommessa potenza, tanto sfrontato talento, tanta esplosiva noncuranza, tanto incontenibile cuore.
15) “Nursery crime”, Genesis. Mai ridimensionare ciò che è stato grande. E questo, dopo pensosa valutazione, è il loro miglior disco. “…Why don’t you touch me? Now, now, now, now, now…”.
16) “Cruel sister”, Pentangle. Jansch & Renbourne da soli basterebbero, ma gli altri ci mettono del loro in questo capolavoro dal profumo jazzato
17) “Radio Ethiopia”, Patti Smith. Comprato in diretta, copertina nera e argento come una vecchia lastra ad albumina, “Ask the angels”, voce abrasiva e Lenny Kaye…
18) “American stars and bars”, Neil Young. Mi pare di sentire tra i capelli il vento che soffia mentre nell’aria c’è “Like a hurricane”. Quasi come “Down by the river”.
19) “Live 1969”, Velvet Underground. Non c’è più Christa Paffgen, ma la versione sussurrata di “Sweet Jane” la evoca come un fantasma. V.U. on stage, semiacustici, abbaglianti.
20) “Alive on the arrival”, Steve Forbert. Una piccola gemma ancora lontana dalle iperproduzioni e dalle sabbie mobili del music business
21) “Willie Nile”, Willie Nile. Esordio folgorante e dai sapori folkie, echi byrdsiani e retaggi dylaniani, Cbgb e Kenny’s Castaways, Alphabet city e East village.
22) “Raw & alive”, Seeds. Sky Saxon ulula (anzi, finge di ululare) sul palco, le ragazzine strillano, la chitarra sibila. Pepite e non solo…
23) “Sweet old world”, Lucinda Williams. Un’infilata irripetibile di canzoni e di ballate, Lucinda ai suoi massimi. E la più grande cover drakeiana mi ascoltata.
24) “CS&N”, CS&N. “Suite, Judy blue eyes” basterebbe da sola a farne una pietra miliare, ma poi c’è tutto il resto che brilla…can you tell me please, who won?
25) “Where’s the party?”, Psycotic Pineapple. Un gruppo di pazzi della bay area che si inoltrano a cavallo tra punk e surf, scomparsi nel nulla e riaffiorati nel web, ma tra i fumetti.
26) “Nuns”, Nuns. Il nome e Jennifer Miro, la loro bionda cantante, occhieggiano tuttoggi nella città dei canyon. Ma nulla è rimasto di quell’acerbo suono losangeleno del 1980…
27) “See how we are”, X. Roots e new wave, John Doe e Dave Alvin, un album granitico, graffito nella roccia, monumentale. Chi può, trovi sul web la versione acustica di “4th of july”.
28) “John Barleycorn must die”, Traffic. “Glad” è stata la colonna sonora di tutte le mie trasmissioni alla radio. Un disco che era avanti anni luce e che rimane tale anche oggi.
29) “Sentimental hygiene”, Warren Zevon. Lontano dagli esordi e lontano dalla fine, un album-omaggio a un grande rocker.
30) “One”, One. Comunità hippie sperdute ai margini del deserto, “viaggi” mistici mentre la stagione dei tempi, e non solo il sole, è al tramonto. Vane invocazioni al cielo che suonano come epitaffi.
31) “Who’s gonna save the world’”, Cindy Lee Berryhill. Una voce oscura dalla solare California, nel solco di Rickie Lee Jones e di Chuck E. Weiss. Semplice, spigolosa, pungente.
32) “Heart food”, Judee Sill. Una scoperta tardiva, una gemma assoluta, un gigante del songwriting disperso tra le gole della città degli angeli. So long.
33) “Live alone in America”, Graham Parker. La scarna, abrasiva testimonianza delle qualità di un grande artista,voce, chitarra e echi zulu “from nation to town”.
34) “Presence”, Led Zeppelin. Il dirigibile quasi al crepuscolo regala un capolavoro poco celebrato, scantonato, eluso, sottovalutato e per questo ancora più bello.
35) “Red, white and blues image”, Blues Image. Dal mare magnum del grande oceano musicale americano affiorano relitti e vestigia ricchi di tesori. Eccone uno.
36) “Bless the weather”, John Martyn. Il disco del trapasso tra il Martyn cantautorale e il Martyn cerebrale, ansie, ballate, visioni, abissi.
37) “One upon a time forever”, Guthrie Thomas. Autore, chitarrista, farmacista, sciamano, perfino imprenditore. Guthrie Thomas è un genio oscuro dalla voce profonda.
38) “Lorca”, Tim Buckley. L’unità di misura del mito, un disco a lungo inseguito e mai del tutto compreso, un’icona e un cenotafio.
39) “Searching for the young soul rebels”, Dexy’s Midnight Runners. Una folgore destinata a lasciare il segno, un gruppo evanescente, un leader illuminato ma difficile.
40) “Deviants”, Deviants. La suora con il lecca-lecca, il movimento underground inglese, i circuiti off, le ossessioni ideologiche e i free events di un’epoca che pare preistoria.
41) “Music for piano and drums”, Bill Buford & Patrick Moraz. Due ex Yes, due maestri dello strumento che nel momento di massimo oblio si producono in questa strabiliante incisione a quattro mani.
42) “Fotheringay I”, Fotheringay. C’è Sandy Denny e tanto basterebbe. Poi ci sono il mito, il suono vellutato del folk revival, l’impasto miracoloso di elettricità e tradizione.
43) “Pirates”, Rickie Lee Jones. La prima cantautrice che abbiamo “scoperto” in tempo reale, coltivata, studiata e amata. Come fossimo Chuck E. (Weiss).
44) “Glass houses”, Billy Joel. Una colonna sonora lunga migliaia di miglia, il suono perfetto, le melodie più belle, lo stile più classico. FM state of mind.
45) “In my tribe”, 10.000 Maniacs. Come sopra: sound intramontabile, una Natalie Merchant ai suoi massimi, una manciata di canzoni indimenticabili. “Hey, Jack Kerouac…”.
46) “Veedon fleece”, Van Morrison. Meglio di Moondance, meglio di Astral weeks. Secondo me naturalmente. Intimismo introspettivo fuori dagli schemi della critica.
47) “First songs”, Laura Nyro. Mai abbastanza rimpianta, tra il flop di Monterey e le scenografie degli Sha na na, gli echi soul, i rigurgiti d’italia, il lungo oblio punteggiato di stelle.
48) “Aftermath”, Rolling Stones. Il dibattito è aperto, ma il pur grande suono “sporco” dei ’70 non può eguagliare lo smalto conferito da Brian Jones…
49) “Desire”, Bob Dylan. Non è Blonde on blonde, ma è pieno, bello, lirico, generazionale, lungo, sofferto. Un disco fuori moda. E per questo lo amiamo.
50) “Reach up and touch the sky”, Southside Johnny & the Asbury Jukes. La celebrazione del fenomeno Asbury Park, la santificazione dello Stone Pony, la riscossa del New Jersey sound.