La notizia che Dylan e Young hanno ceduto i diritti sulle canzoni spiazza forse solo chi (come me) è invecchiato con loro. Ma è davvero il momento di storicizzare il r’n’r o basta riaccendere lo stereo?

 

E quindi?“, mi ha detto il giovane amico al quale, tra il sorpreso e il costernato, avevo fatto presente la cosa.

Dopo un attimo di smarrimento ho rivolto allora la domanda a me stesso. E mi sono pure risposto: “In effetti che c’è di male?“. La cruda verità, come a Nick Drake, mi si stava insomma parando “hanging from the door” in tutta la sua evidenza: nel 2021 non c’è nulla di strano se un musicista famoso vende a una grande compagnia, e per molti soldi, i diritti sulle proprie canzoni. Al mio interlocutore ciò appariva non a caso così lampante che non si era nemmeno posto il problema.

Perchè, allora, io me l’ero posto?

Ironia della sorte, qualche settimana prima, quando arrivò la notizia che la Universal aveva comprato, per trecento milioni di dollari, i diritti sull’intero catalogo di Bob Dylan – o, viceversa, che Bob Dylan per quella cifra aveva venduto il suo catalogo di 600 canzoni alla Universal (ma detto nel primo modo aveva un suono meno sinistro) – stavo per caso rileggendomi l’introduzione del divertente “Rock Critic Law” di Michael Azerrad. Il quale, in un passo davvero profetico, così ironizza: “Proprio nel momento in cui dire almeno una volta in carriera che “il rock è morto” appare uno dei più solenni doveri di un critico musicale, il rock sembra declinare lentamente e con riluttanza a genere di nicchia

Lì per lì ho lasciato correre, per metabolizzare meglio la cosa.

Ma poi vendere metà dei propri diritti (perchè solo la metà e non l’intero cercherò di capirlo dopo) è toccato, tra i molti, a un altro degli immarcescibili, cioè Neil Young.

Così l’interrogativo di fondo è tornato a galla: perchè questo ci lascia tanto spiazzati?

Come detto, in teoria non c’è nulla di male se qualcuno vende qualcosa a qualcun altro. Il problema non è nemmeno il prezzo della transazione. Ma il fatto, accidenti, che i venditori si chiamino Dylan e Young. E che l’oggetto della compravendita siano canzoni. Cose che, sempre per condivisa (o così almeno credevo) definizione, non si vendono in quanto non sono una merce. Cioè: sappiamo bene che lo sono, ma insomma anche no.

Il mio, ora è chiaro, era dunque un abbaglio. Da cui conseguiva una più truce considerazione: il vero problema ero (e rimango) io.

Anzi, noi. O, meglio, il problema è quel riflesso condizionato che porta molti a credere che in sessant’anni di carriera vissuti in un mondo e in una società mutate, nel medesimo arco di tempo, almeno tre volte, un artista sia destinato o perfino condannato a restare per sempre quello che era o che abbiamo creduto fosse rimasto.

Pietosa illusione indotta, purtroppo, dal fatto che siamo invecchiati con lui, in parallelo e in simbiosi, senza quasi mai cambiare prospettiva, e quindi si è portati a sottovalutare i fatali mutamenti intervenuti tutto intorno nel frattempo. A credere cioè, spesso abbarbicandoci a vecchi stereotipi un po’ frusti e forse neppure del tutto veri già ai bei tempi, che Dylan, Young etc fossero immutabili. Aere perenniores. Mentre immutabili erano magari le canzoni e non gli artisti in carne ed ossa.

In un bell’articolo su Sussidiario (qui) Paolo Vites alcune settimane orsono illustrò bene il probabile iter umano e patrimoniale che aveva condotto Dylan alla fatale decisione. Chiudendo con una condivisibile (a me purtroppo non nuova) considerazione: “Un mondo sta finendo e io non mi sento tanto bene…“.

Già.

Lo scorrere del tempo conduce qualsiasi cosa a un naturale ridimensionamento. Tramuta in effimero ciò che pareva eterno. Nel mondo e nell’industria digitale di oggi, anche la musica è una commodity. Quella incisa ormai non si paga più o quasi. Si pagano, covid permettendo, i concerti. Ovverosia – ammettiamolo – lo spettacolo. Aveva dunque ragione Azerrad: il rock, o tutta quella molto articolata cosa che per convenzione siamo abituati a chiamare rock, inclusa una serie di valori-corollario di riferimento, non ha più la funzione, la centralità che gli attribuiamo. Sta lentamente scivolando in secondo piano, magari perfino in terzo. Anche se noi fatichiamo ad accorgercene, per la stessa ragione per la quale forse non abbiamo voluto accorgerci che Dylan o Young, nel frattempo, erano diventati problematici ma ricchi quasi  ottuagenari.

Razionalmente e oggettivamente, pertanto, non ho dubbi: bisogna storicizzare, relativizzare, ripensare, resettare tutto e guardarlo con occhi nuovi.

Mica facile, però.

E’ molto più semplice spegnere il pc, accendere lo stereo, mettere la cuffia e fare finta di niente ascoltando Blonde on Blonde mentre, intorno, il mondo continua a girare verso il suo destino.

 

Desclaimer: in verità, rispetto al music biz e dintorni, nemmeno io sono così ingenuo come mi sono dipinto. Però ammetto che a volte provare a autoconvincersene è rassicurante.