Il numero di dicembre della rivista Uncut regala ai lettori il classico manifesto. Pensavo che i poster non esistessero più, men che meno quelli musicali, e la cosa fa riflettere. Soprattutto su se stessi.

 

Forse, come direbbe Bruce Palmer, the cycle is complete.

O forse sono io che, passato molti anni fa (inconsapevolmente, si capisce) da una fascia d’età a un’altra, ho perduto di vista certa pubblicistica per adolescenti che, anzichè spegnersi con la gioventù della mia generazione, senza che me ne accorgessi si è perpetuata in quelle successive, chissà.

Sfido chiunque però a negare che, occhiometricamente parlando, il quindicennio 1970-1985 non sia stato, oltre che l’età dell’oro di molte altre cose (soprattutto per chi viveva all’epoca i suoi anni migliori, è fatale) anche l’apogeo dell’affiche giovanile per antonomasia: il poster, più volgarmente e meno fascinosamente detto manifesto.

Nella fenomenologia degli anni ’70 al poster erano affidati significati socioculturali multipli e ben precisi.

Era innanzitutto il maxisantino, il segno di devozione che il giovanissimo dedicava al proprio idolo sportivo, musicale, erotico, estetico. O all’animale preferito. O al partito del cuore. Era poi, al tempo stesso, un simbolo per quanto bonario di libertà: la libertà di poter affiggere sul muro a basso costo (e rimuovere con facilità e senza troppi danni. al volgere di mode e passioni) ciò in cui si credeva o a cui si aspirava, con buona pace degli altri quadretti appesi dalla mamma nella nostra cameretta per ravvivare l’ambiente. In pratica, attaccare un poster significava libertà di esprimersi, ma senza dirsi esplicitamente contestatori.

I grandi guardavano quei manifesti con un sopracciò un po’ compatitore e fastidioso. Noi invece ci davamo dentro di martello e scotch, per la gioia dell’imbianchino e degli editori. Editori i quali, i poster, cominciarono infatti a infilarli ovunque, sempre più grandi, spillati al centro delle riviste o allegati alle medesime, piegati quindi (con le complicate operazioni di dispiegamento e stiratura che ciò comportava prima dell’affissione). Altro che paginone centrale con la playmate del mese di Playboy, il quale invece si conservava chiuso e ben occultato in fondo ai cassetti, sotto la pila dei maglioni, per contemplazioni riservate. Il poster si spaginava, si rimirava, si distendeva, quindi si studiava dove imbullettarlo, se al posto di un altro o sopra un altro o a incastro con un altro. In caso di mancanza assoluta di spazio, lo si riponeva con cura, in attesa di tempi e muri migliori. Quasi nessuno lo gettava. Io ne ho ancora scatoloni pieni, a quasi mezzo secolo di distanza. Magari qualcuno ha anche un valore collezionistico, chissà.

Ma ok, vengo al punto.

Ieri mi arriva per posta il nuovo numero di Uncut, ben fatta rivista musicale inglese.

Tolgo il cellophane e, sorpresa!, con il fascicolo trovo un allegato.

Lì per lì penso a una pubblicità natalizia. E invece no: è un poster. Il più classico dei manifesti con il più classico dei soggetti che, nel caso fossimo nel 1985, ti saresti aspettato di trovare effigiato: Bruce Springsteen. Per l’esattezza, la gigantografia dei luoghi springsteeniani d’America

Lo ammetto, non credevo ai miei occhi.

Gli ultimi poster che mi avevano affascinato, sebbene ormai più come souvenir che come cose da appendere per davvero, erano quelli staccati alla chetichella alla fine dei concerti a cui avevo assisitito. Ne ricordo uno di una band francese, i Telephone. Firenze 1979, salvo errori. Rammento anche qualche agognato rock o jazz, o blues family tree di Peter Frame, utile però più come fonte di informazioni che per altro.

Prima ancora c’era stata, pionieristica in questo almeno in Italia, la rivista Popster, che all’inizio era appunto un  poster monografico con la foto davanti e il testo sul musicista dietro.

E ora, al tramonto del 2021, me ne trovo uno esattamente con quel formato. Bello, dotto, fitto e assolutamente demodèe.

Oppure no?

Oppure, cioè, queste riviste belle ma un po’ nostalgiche, che si appoggiano ormai su lettori dai cinquanta in su, e che basano la loro fortuna su copertine e contenuti dedicati a Beatles, Rolling Stones, David Bowie, Dylan , Led Zeppelin (cito le prime che mi vengono in mente tra le più recenti), segnano ormai, in realtà, solo un passo ulteriore della nostra senilità e della correlata regressione ai ricordi di adolescenza restituendoci gli argomenti, le foto e gli strumenti di quegli anni verdi, in un perfido atto di di indotto amarcord?

Forse dunque non è soltanto oleografia e deja vu, ma pure lucida visione commerciale e una profonda conoscenza del proprio cliente, ovvero del consumatore?

In questo quadro, forse non è stata casuale, bensì profetica la chiamata, pochi giorni fa, di un vecchio amico e compagno di scorribande discografiche, che mi confessava una certa sopraggiunta “tristezza” per la sensazione che, giradischi alla mano, musicalmente nuove porte stessero chiudendosi alle spalle dei Drogo del rock and roll.

Gli ho risposto che aveva ragione e che capivo. Ma non avrei immaginato che a breve sarebbe arrivata la riprova che, nonostante tutto e al di là di tutto, costituiamo ancora un mercato.

Esattamente come nel 1974.

Il che però significa che, più spesso di quanto si pensi, siamo sempre gli stessi.