Mal di pancia agostani: si parla di giuste retribuzioni, ma da 12 anni la questione dei compensi dei giornalisti autonomi langue nelle secche sindacal-politiche. Siamo professionalmente morti, ma a volte  vien voglia di riesumare la commissione-ombra…

 

Qualcuno dirà che sembro un disco rotto.

E forse ha ragione, perchè la logica suggerirebbe di prendere atto che la guerra (non la sola battaglia) è perduta e che, ammesso fosse ancora vincibile, sarebbe comunque tardi per avere dei concreti benefici perchè nel frattempo, come Pinocchio qui nell’attesa che i medici si mettano d’accordo sullo stato della sua salute, la nostra (libera) professione è morta. Così come sono morti il 90% dei committenti. Insomma si parla a tutti gli effetti di un caro estinto.

Eppure, a guisa della canzone, ogni volta che la cronaca riprincipia a girarci intorno la questione mi torna su e non ha nemmeno la bontà di diventare letteraria: fa solo male al fegato.

Parlo del famoso equo compenso giornalistico, tornato di pur molto effimera attualità (scusate l’ironia) prima con il varo del reddito di cittadinanza e poi col recente dibattito sul salario minimo.

Ma a nulla, nemmeno la decenza o l’opportunismo di cui i nostri rappresentanti sono pur dotatissimi, sono valsi a riesumare la faccenda dalle nebbie sindacal-politiche nelle quali è stata sepolta.

Parlo, per chi non l’avesse capito, dei lavori per l’individuazione della giusta retribuzione per i giornalisti “autonomi”, quelli che insomma non sono assunti in una redazione ma che svolgono a tutti gli effetti la professione, in forma esclusiva o secondaria.

Gente, tanto per dire, che rappresenta il 75% dei 110mila iscritti all’OdG, produce il 70% del quotidianamente pubblicato e che, per circa 45mila unità, è dotata di una posizione Inpgi e, perciò, paga la previdenza. O la parodia di essa, vista la situazione tragicomica in cui lo specifico settore versa (vedi la campagna di noi GAP).

Non sto ovviamente a rifare la storia dell’E.C., di cui si dibatte dal 2012 e che è in stallo pressochè totale dal 2016, grazie alle camarille delle nostre istituzioni professionali.

Dico solo che oltre un decennio di inerzia ha accompagnato la transizione prima dall’operaismo giornalistico al volontariato giornalistico, poi alla sostanziale dilettantizzazione della professione e infine al corrente hobbismo, ossia quel curioso paradosso secondo cui, anzichè costituire un lavoro retribuito grazie al quale la gente può permettersi di coltivare passatempi costosi, è il passatempo costoso (evidentemente alimentato da altre risorse: accattonaggio, genitori ricchi, masochismo, occupazioni parallele ma serie, etc) ad essere diventato un lavoro camuffato.

Prova ne sono l’economia della gratitudine e le retribuzioni simboliche su cui il sistema si regge.

E stavolta, a pensarci, mi è presa così male che mi è venuto voglia di risvegliare la quiescente commissione ombra: così, tanto per far girare un po’ le scatole ai soliti noti…

Che ne diranno i miei compari?