di FEDERICO FORMIGNANI
La mungitura e la lavorazione del latte sono mestieri antichissimi, che affondano non solo le radici, ma anche il lessico, nella ruralità dialettale più pura…

 

Gli spunti per queste note derivano dai contenuti di un libro straordinario pubblicato nel 1943 e scritto dallo svizzero Paul Scheuermeier, dopo una lunghissima fase di raccolta dati in Italia e in Svizzera. Un tempo era il lavoro dell’uomo, duro e ripetitivo, a risolvere ogni problema di raccolta e lavorazione del latte, a cominciare dalla mungitura, che aveva luogo negli ambienti più diversi: nelle malghe degli alpeggi o nelle stalle della pianura.

Strumento utilissimo per la mungitura (viene da sorridere, ma è così!) era lo sgabello. Ne esistevano a una sola gamba, a tre o quattro gambe, vale a dire “normali” ed altri con sedile rotondo o rettangolare. Nel Sud si usavano – e forse si usano ancora – sgabelli a graticcio ricavati da ceppi o tronchi d’albero. I nomi dialettali di questo semplice strumento di lavoro erano tanti: dal diffusissimo scàgn lombardo alla sopia da mùlzer delle parlate ladine, alla sèla friulana.

Il latte appena munto veniva raccolto in appositi recipienti, diversi per forma e materiale: secchi, mastelli di rame, zinco, legno, terracotta, tutti coi loro bravi nomi dialettali. Il secchio era caldèra a Concordia (Modena), quello di rame a Tueno (Trentino) era detto pài; diventava sadiala nelle parlate sur-silvane del Grigioni e pgnàta (pignatta) a Saludecio, in Romagna. Passiamo a recipienti più grandi: i mastelli venivano chiamati meltra nel Grigioni svizzero, multrégn in Val Bregaglia, pazòn nelle parlate ladine. Fra i contenitori di terracotta c’era poi la tüpina in Piemonte, il lavrügiu in Liguria (una specie di ciotola) e i pignàt in Settentrione, in generale.

Altra operazione importante era quella di filtrare il latte munto e raccolto nei diversi contenitori; allo scopo, si impiegavano differenti utensili: per esempio imbuti, catini di rame o legno, cassette, colini, setacci. Differenti metodi di filtrazione erano affidati a mannelli di paglia, a scopette di saggina, a rametti d’abete intrecciati e fissati a un piccolo telaio di legno. Il latte, passando attraverso i vegetali, si puliva così delle impurità. I vari strumenti per la filtrazione del latte avevano i loro nomi in dialetto: in Lombardia c’era il culé, il cribi, il sedàs; nel Veneto il coladòr, nel Canton Ticino il dergìn, nella Val d’Ossola il lacé (da lacc, latte). Tra i filtri di tela o stoffa si incontrava la blaca ticinese, la rarola piemontese, la patina lombarda e la stamigna emiliana.     Per completare il quadro dei materiali filtranti – tornando per un momento a quelli “naturali” –  si può aggiungere che esistevano orientamenti geografici, nell’uso dei rami di determinate piante; ecco allora l’impiego di radici sottili a fibra lunga nel Ticino e nel Grigioni; i rametti d’abete venivano preferiti in Lombardia e in Trentino, mentre quelli di ginepro erano prerogativa degli Engadinesi. La paglia “andava” molto in Valtellina, al contrario certi tipi di muschio venivano preferiti nel Friuli. L’Ossola si affidava alle foglie di lampone e in altre località si filtrava il latte con l’ortica, la bardana, pezzi di corteccia secca, eccetera. Nel Veneto e in Emilia (quando si dice il progresso!) usavano talvolta una fine rete metallica.

Il trasporto del latte, infine, avveniva in montagna con secchi, secchielli e piccole brente; il peso costituiva un ostacolo non indifferente. Nella vasta pianura Padana il trasporto veniva organizzato dai commercianti, dalle cooperative e dai caseifici. Oggi, lo sappiamo, è tutto diverso. Le enormi autobotti con rimorchio delle multinazionali raccolgono il liquido bianco e lo sottopongo a mille “torture” prima di presentarlo in bottiglie, vasetti, contenitori in tetrapak, tutti attraenti e colorati.