La camera ha approvato in commissione legislativa la legge che garantisce una giusta retribuzione ai giornalisti esterni alle redazioni (cioè il 60% del totale). Gli atipici, giustamente, esultano. Ora tocca al Senato. Sul dopo sono meno ottimista.

 

La normativa sull’equo compenso dei giornalisti autonomi – che qualche frescone, prendendo lucciole per lanterne, continua a chiamare precari – è da ieri “quasi” legge. Dovrebbe costituire il primo passo per la rivalutazione del trattamento economico delle decine di migliaia di colleghi che non sono assunti nei giornali, ma producono oltre due terzi del pubblicato, spesso con contropartite simboliche, inesistenti o comunque inadeguate a consentirgli una minima sopravvivenza (e quindi, aggiungo, indipendenza). Ora la palla passa al Senato dove, dicono i parlamentologi, non dovrebbero temersi imboscate.
Questo il lancio ANSA: “ROMA, 28 MAR – La commissione Cultura della Camera, in sede legislativa, ha dato il via libera alla legge sull’equo compenso per i giornalisti precari, relatore Enzo Carra (Udc). Il provvedimento passa ora al Senato. “Il testo, presentato da Silvano Moffa (Pt) e firmato da parlamentari di tutti i gruppi, è stato votato all’unanimità”, rende noto Giuseppe Giulietti,parlamentare del gruppo misto e portavoce di Articolo 21. “Il parere favorevole del governo è stato dato dal sottosegretario Peluffo. Ci auguriamo che questo provvedimento possa ora essere approvato anche al Senato ed entrare così immediatamente in vigore, tanto più in un momento segnato dalla crisi del settore e da una riforma del mercato del lavoro – conclude Giulietti – che rischia di aggravare ulteriormente il regime delle tutele sociali e degli ammortizzatori”.
Insomma, presto la bozza dovrebbe diventare legge vera e propria. Per testo e dettagli vedere qui.
Nell’ambiente giornalistico l’euforia è diffusa. La circostanza che la notizia sia “passata” sui principali organi di informazione è il segno che, forse, la faccenda ha fatto breccia anche nei cervelloni di chi comanda e che, fino a ieri, su certe cose ha fatto spallucce.
Ma c’è un ma.
Anzi, ce ne sono due. No, tre.
Il primo è che la norma sull’equo compenso (anche a prescindere dai complicatissimi problemi di concreta applicazione che essa potrà trovare, o meglio certamente troverà) arriva parecchio fuori tempo massimo. Arriva cioè quando, proprio a causa degli scarsi compensi, la professionalità della categoria si è in gran parte dissolta e gli operatori dell’informazione sono divenuti una pletora di soggetti che arrancano cercando, con tanta buona volontà ma spesso con scarso spessore, di sbarcare il lunario. Di solito giovani che inseguono un sogno illusorio per almeno il 95% di loro.
Il secondo è che, se realmente ma soprattutto se congruamente applicata, la legge provocherà per gli editori un brusco innalzamento dei costi e quindi da un lato un ulteriore ridimensionamento del personale esterno e dall’altro l’espulsione dal mercato dei soggetti meno capaci. Non più soldi per tutti, quindi, ma più soldi solo per i più bravi. Lo trovo ineccepibile, sia chiaro, ma ho la sensazione che tra i giubilanti giornalisti questo aspetto non sia stato ancora afferrato del tutto.
Il terzo, e più inquietante, dei ma è sull’effettiva capacità del legislatore di individuare la soglia del “giusto“. Cioè di essere capace di stabilire quando un compenso è “congruo” in un mondo reso quasi inestricabile dall’incrociarsi di tante variabili quali la natura e la frequenza degli incarichi, la competenza specialistica richiesta per certi articoli, il non sempre lineare rapporto tra il tempo impiegato per la realizzazione di un servizio e la sua estensione, le prassi aziendali, la diversa diffusione e prestigio delle testate. E potrei proseguire con decine di altri elementi.
Il disegno di legge affida il compito a una commissione (già l’espressione non evoca nulla di buono) di quattro membri.
Cito testualmente:
Art. 2 (Commissione per la valutazione dell’equità retributiva del lavoro giornalistico).
1. È istituita presso il Dipartimento per l’informazione e l’editoria della Presidenza del Consiglio dei ministri, la Commissione per la valutazione dell’equità retributiva del lavoro giornalistico, di seguito denominata «Commissione». La Commissione è composta da quattro membri, di cui:
a) uno designato dal Ministro del lavoro e delle politiche sociali, con funzioni di presidente;
b) uno designato dal Ministro dello sviluppo economico;
c) uno designato dal Consiglio nazionale dell’ordine dei giornalisti;
d) uno designato dalla Federazione nazionale stampa italiana (FNSI)
“.
Dunque, due membri sono di nomina governativa. Che Dio ce la mandi buona e speriamo che i designati vengano scelti in base alla loro effettiva conoscenza del mondo giornalistico e dei problemi de quo. Uno verrà invece nominato dal CN dell’OdG, altro organismo che non brilla affatto nè per lungimiranza, nè per aggiornamento sul mondo “reale” della professione (vedansi le pietose camarille in corso sulla pur indispensabile e urgente riforma). Qui la speranza è che il prescelto sia tale non in base alle logiche di corrente, ma in base alla competenza sulla materia (e i nomi buoni a cui attingere non mancano). Il quarto, infine, sarà nominato dall’Fnsi.
Ecco, qui casca l’asino. E noi rischiamo di restarci sotto. Innanzitutto il testo originale della proposta di legge prevedeva solo i tre membri sopra menzionati, questo del designato dalla federazione è un bel coniglio uscito dal cilindro chissà di chi. In secundis, a causa del suo cronico e colpevole oblio nei confronti del lavoro giornalistico atipico, il sedicente sindacato unitario è il primo, anzi l’unico responsabile dell’abisso retributivo in cui la categoria è caduta da un decennio a questa parte: appare dunque a dir poco paradossale, per non dire beffardo, che ora il colpevole del disastro venga chiamato a far parte dell’organismo creato per porre rimedio ai mali che ha provocato. Terzo: come dimostrano i fatti, l’Fnsi non sa nulla di autonomi, precari, esterni. E’ un altro mondo, sul quale però l’arrogante sindacato pretende di dover esercitare una competenza inspiegabilmente esclusiva. Quarto: mica è un caso, infatti, che l’Fnsi rappresenti meno del 10% di quei giornalisti, sull’equità del compenso dei quali adesso dovrebbe pronunciarsi. Con quale cognizione di causa o con quale mandato, mi chiedo? Infine: visti l’andazzo e i precedenti, nonchè gli sgarbi anche recenti (come i giochini messi in scena attorno alla Carta di Firenze) compiuti ai danni dei suoi stessi componenti, “rei” di occuparsi di freelance e di aver partecipato alle copiose “consulte” di facciata fatte nascere qua e là sull’argomento al solo scopo di gettare fumo negli occhi, chi mai potrà essere il membro di nomina federale? Faranno come con la Commissione sul lavoro autonomo, che hanno affidato prima alla presidenza di un contrattualizzato e poi di un pensionato?
Insomma, se si cerca di porsi al di fuori dell’innato ottimismo da cui i giornalisti, nonostante tutto, continuano ad essere pervasi, non è che – per effetto dell’approvazione della legge sull’equo compenso da parte di un ramo del Parlamento – le nuvole all’orizzonte della categoria si siano dissolte.
E se fosse solo un raggio di sole fugacemente penetrato tra le nubi portatrici del diluvio in corso?
Così parlò il “pessimista costruttivo“. Cioè io.
Che però, spesso e suo malgrado, ci azzecca.