Anzichè a un nuovo “modello di business” o “di giornalista” (che sia tale e non simuli), forse occorre pensare alla svelta a un nuovo “modello di lettore“. Senza il quale si può anche chiudere bottega.
L’informazione e la professione giornalistica sono due cose che dovrebbero marciare parallele, se non coincidere. Ma oggi tendono a divergere.
La sensazione è infatti che la prima si sia fatta sempre più ideologica, quindi sempre più simile alla propaganda. E quando dico ideologica non mi riferisco alla sola politica, ma in generale ad ampie convinzioni, preconcette e immutabili, radicate al punto da non essere scalfibili neppure dall’evidenza di prove contrarie. Utilizzate come clava per demolire le idee opposte, anzichè come argomento di persuasione. E chi le usa non è sovente un giornalista ma qualcuno che, con la scusa di “disintermediare”, ha la pretesa di scavalcare il ruolo e la terzietà del giornalista.
La seconda, invece, sta morendo di lenta consunzione. Un po’ perchè la terzietà è in via di estinzione: non è richiesta, del resto, nè colta, nè tantomento apprezzata dal lettore. Un po’ perchè l’editoria, senza la quale non esistono i giornali, pare aver imboccato una via di non ritorno a favore della polarizzazione degli schieramenti, che è la foglia di fico della mercantilizzazione delle notizie. E un po’ perchè, infine, essendo stato in sostanza liberalizzato e dilettantizzato, il mestiere si muove in un profilo bassissimo, verso il quale il potere – per distrazione o malizia, decidete voi – la va sospingendo da decenni, rifiutandosi di porre mano a un’improrogabile riforma della legge professionale.
La spinta al ribasso emerge tutta nell’approssimazione permanente nella quale i giornalisti accettano di operare, nella progressiva ambiguità (ormai ritenuta “normale”) di ruoli e posizioni e nell’affermarsi della semigratuità del lavoro autonomo. Una gratuità che corrompe inevitabilmente anche il lavoro di chi opera in redazione, costringendolo a barcamentarsi con una materia prima pressochè gratuita, e quindi mediocre, e in uno stato di precarietà ormai permanente tra chiusure, accorpamenti, stati di crisi, palleggi di testate, dirimensionamenti, scivoli, etc.
Poco giova che sulla piazza ci siano ancora molti giornalisti in gamba, giovani e meno giovani: sono tutti in trincea o impegnati in lunghe guerre di logoramento. Il trend sembra segnato.
L’impressione dunque è che, anzichè a un “nuovo modello di business” o a un “nuovo modello di giornalista” (dove comunque il giornalista rimanga tale e non faccia solo finta), occorra pensare alla svelta a un “nuovo modello di lettore“, capace di cogliere le differenze e di apprezzare il confronto, senza farsi cloroformizzare dal doping dei social, della militanza e di chi sgomita in tv.
In mancanza, si può serenamente chiudere bottega.