Se fosse possibile salire su una collina e guardare dall’alto la situazione della professione giornalistica in Italia, come si fa con un campo di battaglia o di grano, la visione sarebbe chiarissima. E le troppe elucubrazioni in cui stiamo inutilmente affogando diventerebbero subito carta straccia.

La cosa paradossale è che sulla collina ci salgono i non giornalisti, i quali quindi vedono benissimo ma, non essendo parte del sistema, non possono cogliere del tutto dettagli e sfumature che solo chi è dentro di esso potrebbe cogliere. Solo una minima parte di questi ultimi ha però gambe e testa per farsi la scarpinata e preferisce contemplare il panorama dal basso, senza prospettive e con troppe frasche – o pagliuzze – davanti agli occhi.

Scorgerebbe subito, altrimenti, l’amara verità.

La ventilata abolizione è, innanzitutto, più una minaccia che una realtà: primo, perchè checchè se ne dica non sarebbe un’operazione facile nè dal punto di vista normativo (con l’OdG verrebbe demolito tutto ciò che ne consegue e lo circonda), nè da quello politico. E si tratta di calcoli di opportunità che chi governa fa sempre con molta attenzione. Secondo, perchè lasciare una professione regolata da una legge del 1963 (e mai aggiornata salvo marginali ritocchi) equivale a lasciarla in balia della storia e quindi a destinarla volutamente al naufragio, cosa che da 55 anni tutti i governi hanno puntualmente fatto. Terzo, perchè una sorta di autoabolizione è in corso da anni e viaggia sotto le mentite spoglie di una liberalizzazione di fatto: per tutta una serie di ragioni e di manovre, infatti, dettate a volte da ottusità ed altre da malizia, da almeno un paio di decenni la categoria sta compiendo atti autolesionistici in sequenza, i cui effetti si vedono tutti.
Proviamo a elencarli: mantenimento di una struttura interna burocratico-ministeriale; inquinamento costante, esiziale e capillare da politica e da conseguenti logiche correntizie; omissione di controllo o troppa tolleranza verso gli abusi, sia nei confronti di chi non è giornalista ma si spaccia o agisce come tale, sia nei confronti di chi è giornalista e opera non da giornalista (cioè fa marchette o non esercita); progressivo abbassamento della soglia di reddito minima necessaria per l’iscrizione all’albo (il fatto che i giornali non pagano è una scusa: sapendo che scrivere sotto certi compensi non dà il “tesserino“, quasi nessuno accetterebbe di lavorare sotto il minimo); mancate revisioni degli elenchi e alimentazione del “giornalistificio“, con esplosione fuori controllo della popolazione giornalistica, eccesso di offerta di lavoro, crollo dei ricavi e perdita di prestigio della categoria; mancata difesa delle prerogative professionali e progressiva legittimazione-parificazione presso l’opinione pubblica di chi opera in parallelo, ma non svolge la professione giornalistica (es. blogger); assenza assoluta di tutela sindacale degli autonomi, giunti nel frattempo però a costituire l’80% degli iscritti all’albo; iniziative demagogiche tipo il “ricongiungimento“, come se alla mancanza di lavoro si potesse sopperire cambiando distintivo professionale, o tipo l’aborto dell’equo compenso orchestrato dalla Fnsieg.
Mi fermo qui, consapevole di molte dimenticanze, per carità di patria.
Di pari passo con la liberalizzazione di fatto e i suoi nefasti effetti marcia un alter ego chiamato dilettantizzazione della professione, frutto di una precedente e sciagurata fase, quella dell’operaizzazione della categoria. Se ci pensate, è tutto lineare: il giornalistificio produce “penne” sempre più numerose e affamate, in feroce concorrenza tra loro, sottoprofessionalizzate e quindi anche disposte o costrette a lavorare per compensi progressivamente minori, fino al punto in cui l’attività non è più una fonte di sostentamento ma diventa un hobby costoso, per coltivare il quale sono necessari perciò un (altro) lavoro serio e un reddito vero. Ecco, la dilettantizzazione è compiuta: redazioni all’osso che fanno un lavoro impiegatizio di “cucina” e assemblano una mole enorme di informazione semilavorata che viene fornita, gratis o quasi, dai “volontari” del giornalismo.
Qualcuno si chiederà cosa spinga la gente al volontariato. La risposta semplice: un po’ di vanità, un po’ di ingenuità e qualcuno che paga i conti al posto loro.

In trincea – tolti i tromboni e chi è vicino alla pensione e dunque può, comprensibilmente, fregarsene – a difendere ciò che una volta si chiamava professione giornalistica restano poche decine di migliaia di disperati, nemmeno tutti in buona fede nè deontologicamente sempre ineccepibili.

C’è davvero bisogno di abolire un Ordine e una professione che si sono involuti così? O non si fa prima ad aspettare che si spengano da soli, magari mettendo in campo azioni dilatorie e pietose simulazioni di riforma come quella a cui abbiamo recentemente assistito?

Comincerei a rifletterci e a pensare al mestiere che faremo da vecchi.