Tareq e Michaele Salahi, i due celebri imbucati al ricevimento di stato di Barack Obama.

Ammettiamolo: da quando, con il lavoro, cominciano a venir meno perfino i giornali su cui e per cui sperare di poter scrivere un articolo, ogni giornalista che partecipa a una conferenza stampa rischia di essere o passare per un clandestino. Con misurata ma malcelata soddisfazione di chi, fino a ieri, veniva sbeffeggiato per certe costanti presenze alle conferenze stampa con buffet…

E’ risaputo: spesso i galloni danno alla testa di chi li porta. Rendendolo, secondo i casi, ridicolo, patetico o insopportabile. Il fenomeno è trasversale e colpisce tutte le classi sociali, tutte le categorie professionali e tutti gli ambienti, a qualsiasi latitudine.
Ma i galloni di giornalista, e perfino quelli da presunto tale, devono conferire una particolare ebbrezza.
Non si spiega altrimenti perchè sia così numeroso lo stuolo di chi è disposto a qualunque cosa – ammiccamenti, colpi di gomito, risatine, svergognature pubbliche, topiche clamorose, messe all’indice, black list e via cantando – pur di ricevere un “trattamento da giornalista”. Ciò che, nella stragrande maggioranza dei casi, si traduce poi in vantaggi risibili o addirittura nulli: gagdet superflui, qualche buffet dal mediocre all’immangiabile, borsate di carta destinata al macero senza neppure essere sfogliata (soprattutto da chi, interessato a esserci più che all’argomento, non ha motivo di approfondire), qualche libro o catalogo pronti ad essere rivenduti a metà prezzo alla più vicina bancarella.

Su tutto ciò, tra gli addetti ai lavori, fiorisce ovviamente una vasta e risaputa letteratura che attinge a una casistica invero amplissima e a un quasi altrettanto ampio ventaglio di leggende metropolitane.
La più ricorrente spiegazione sociologica dell’esistenza di quella che, nell’ambiente, è detta la “banda della tartina”, mi pare però troppo semplicistica: il tartinaro, dice la vulgata, è qualcuno che in sostanza punta a mangiare e a bere a sbafo, imbucandosi ai ricevimenti riservati ai giornalisti e dando sfoggio, in quest’occasione, di un’impensabile resistenza nel sostare immobile davanti al tavolo imbandito, insensibile agli spintoni, sordo alle proteste, meccanico nel movimento di presa e portata alla bocca di pizzette e bignè.
Ma sarà vero? Sarà proprio così banale? Possibile che una persona di media intelligenza sia disposta ad essere umiliata e ad umiliarsi fino a questo punto pur di scroccare un’abbuffata, tenuto conto che quello del tartinaro non è un diletto occasionale, bensì l’espressione di un’attitudine costante, una vera e propria vocazione che si manifesta nella pratica quotidiana, con sistema, metodo e capacità organizzative insospettabili. E al cospetto, oltretutto, dei sempre medesimi interlocutori o quasi.
No, non può essere così banale.

Cosa dunque può spingere qualcuno a tanta affezionata partecipazione? Anche perchè, diciamolo, ancora prima di cominciare i finti o sedicenti giornalisti sono sempre e già noti a tutti, conclamatamente: ai “colleghi” (virgolette d’obbligo) e agli organizzatori di eventi e conferenze stampa. Eppure, ciononostante, non mancano proprio mai, sono una presenza tipica, talvolta perfino rassicurante, in certi casi addirittura consolatoria, un segnale che siamo vivi, che ci siamo ancora, che il mondo gira.
Col succedersi delle generazioni, poi, il tartinaro si sa riciclare, sfruttando la scarsa conoscenza dell’ambiente da parte delle nuove leve e accreditandosi presso di esse come un collega vecchio e saggio, schivo ms disponibile, provvido di consigli. Poco importa che il neofita scopra il giochino quasi subito: tanto è bastato a rompere il ghiaccio.

Perchè è a questo, in fondo, che il finto giornalista punta davvero. A un riconoscimento, a una legittimazione – anche apparente, anche accondiscendente – della sua presenza, a una sorta di acquiescenza alla sua mancanza di titolarità. Nella non del tutto peregrina convinzione che, con il tempo, le parti si avvicineranno: lui acquisirà pian piano un suo diritto ad esserci, gli altri in qualche modo lo adotteranno, lo ingloberanno. Metabolizzeranno, con l’infinita reiterazione, la sua “imbucatura” e gli riconosceranno insomma una specie di parziale diritto di cittadinanza nella comunità.

Ma c’è di più. Perchè se fino a ieri il tartinaro aveva due formidabili alleati, ora ne ha tre. E l’ultimo è il più subdolo.
I primi alleati dell’imbucato sono i suoi simili: tutti insieme costituiscono infatti, legati da una sorta di tacita solidarietà, una rete sociale efficientissima, organizzata, previdente, ben informata. Alle riunioni fanno gruppo, recitano insieme la parte sostenendosi a vicenda, siedono l’uno a fianco all’altro a tavola e riescono così a camuffare abilmente la mancanza di argomenti da condividere con gli altri commensali. Nulla gli sfugge: il loro fiuto è imbattibile per individuare situazioni, umori, opportunità.
I secondi alleati sono gli uffici stampa e i pr. Sempre pronti, da un lato, a lamentarsi dell’assedio dei sedicenti, a smascherare crudelmente le loro bugie a volte puerili e perfino tenere, a rilasciare sbuffi di palese impazienza e a gettare gli occhi al cielo dopo sguardi d’intesa con i colleghi. Ma ben consapevoli, dall’altro, che gli imbucati rappresentano per il loro lavoro una risorsa preziosa e insostituibile. Gli imbucati infatti fanno numero, aiutano a riempire le sale semivuote, si calano perfettamente nella parte dei compiti giornalisti e sanno simulare assorto interesse come nessuno durante le barbosissime conferenze stampa. Sorridono sempre, non si lamentano mai, ringraziano. E, forse per espiare il loro intimo senso di colpa, accettano anche di essere emarginati, snobbati, sopportati. Però rimangono fino alla fine, non sgattaiolano via a metà riunione. E pazienza se poi si rimpinzano al rinfresco, ce n’è per tutti e, ammettiamolo, la gran parte dei giornalisti veri non è meno ingorda e maleducata di loro.

E’ tuttavia il terzo ed ultimo alleato quello che riscatta e quasi nobilita la figura del fino a ieri sbeffeggiatissimo tartinaro. Ne premia la costanza e ne attenua la proverbiale faccia di bronzo, riabilitandolo al cospetto di chi per anni ne ha esecrato la puntualità e l’appetito. Questo insospettabile alleato siamo oggi tutti noi, i giornalisti “veri” (virgolette ancora più d’obbligo di prima), che a poco a poco ci ritroviamo senza giornali su cui scrivere o nella poco piacevole prospettiva di perderli, costretti quindi ad andare a inviti e conferenze stampa senza avere in mano un reale incarico, con poche o nessuna speranza di pubblicare qualcosa che sia almeno retribuito, aggrappandoci a spigolature e notiziole che fino a ieri avremmo tralasciato e che adesso ci appaiono appaiono come potenziali, eccitanti microscoop in grado di metterci in condizione di “vendere” il pezzo a testate a loro volta ormai sempre più asteniche, magre, emaciate, al verde, asserragliate nelle proprie redazioni e difese da pochi quanto demotivati redattori, timorosi anch’essi assai più della stabilità del proprio posto di lavoro che non della bontà della notizia, del “buco” da dare alla concorrenza e di tanto ciarpame di cui noi giornalisti “seri” ci siamo nutriti per anni.
E in questo contesto, loro, i “tartinari”, che fanno? Tengono botta, rimangono se stessi, mantenendo sul viso quel sorriso conciliante e un po’ imbambolato di sempre nel quale però, per la prima volta, ci pare di leggere anche un vago ghigno di accondiscendenza mai riconosciuto prima, quando fugacemente li salutavamo o beffardamente li ignoravamo. Si mostrano affabili e comprensivi, ostentano di condividere, come se fossero loro, i nostri affanni e le nostre incertezze professionali.
In qualche modo, alla fine, il tempo gli ha dato ragione. Gli ha offerto l’occasione per la rivincita.
Lasciamo allora che se la godano in pace. Perchè, piaccia o meno, da oggi siamo un po’ tutti tartinari. Almeno finchè c’è rimasto in giro qualcuno che ci invita e le tartine le offre.
Gaudeamus!