Tocca a affaritaliani.it) la solita denuncia: “Freelance sfruttati e malpagati: un articolo vale 2 euro”. Scoperta dell’acqua calda, alti lai dei  responsabili (Fnsi e OdG)sul il destino cinico e baro dei colleghi, piagnistei dei Tafazzi che si lamentano, ma poi accettano tutto.

 

Lo so perfettamente: dopo questo post i miei già numerosissimi nemici si moltiplicheranno, ma pazienza. Il mio vezzo non è andare controcorrente, bensì dire la verità o metterla in luce, anche quando – anzi, proprio quando – il gregge, accecato dai luoghi comuni e dal rassicurante calore della banalità, non sa o non vuole guardare in faccia la realtà e si balocca con le ombre agitate dai soliti noti.
Eppure, stavolta mettermi di traverso mi costa più di altre volte. Colpa del tema scottante, della mancanza di argomenti solidi? No, al contrario. E’ la noia. La noia di trovarmi a ripetere per la centesima volta cose evidenti, ovvie, lapalissiane. Al cospetto delle quali, tuttavia, la gran massa si blocca, si impunta, esita ad uscire dal binario del conformismo e del riflesso condizionato.
Il lancio è di oggi e più o meno tutti i colleghi giornalisti l’avranno letto e forse commentato. Lo “spara” (qui) il sito affaritaliani.it: “Giornalisti/Freelance sfruttati e malpagati: un articolo vale 2 euro. Da Repubblica a Libero, ecco le testate che incassano i soldi pubblici e non pagano i collaboratori”.
Accipicchia, bella scoperta. Peccato sia così da sempre o quasi. Uno scandalo? Certo. Ma con radici antiche, non una novità. Al contrario: è uno di quei fenomeni di masochismo professionale che meglio connotano il cosiddetto quarto potere. In sintesi: mi pagano poco e male, a volte per niente, mi vessano, mi maltrattano, mi illudono, mi conculcano. Ma io insisto. E invece di sbattere la porta, di mandarli a quel paese, di dedicare le mie energie a cause migliori, di cambiare mestiere, di cercarmi una fonte di reddito seria, resto lì sempre disponibile, curvo, prono a qualunque ricatto o sberla. Scusa ufficiale: “La passione“. Ma per favore: con la passione si coltivano i passatempi, non ci si campa la famiglia.
Dunque, dico io, se deliberatamente si sceglie di rovinarsi perseguendo un’illusione di carriera che, con ogni evidenza, non ha la minima possibilità di realizzarsi, che c’è da lamentarsi? Mistero. E’ una questione di libera scelta. Scelgo di soffrire? Ok. Nessuno mi obbliga, non me l’ha ordinato il dottore di fare il giornalista (rectius: di giocare a fare il giornalista, visto che, non essendo un’attività remunerativa, rimane in sostanza un hobby e pure piuttosto costoso).
Ma la realtà, quella vera, è più sottile e più insidiosa. Mai banale.
Non c’entra, in fondo, nemmeno il narcisismo che tanto spesso viene tirato in ballo, l’ebbrezza di vedersi “firmato” in fondo all’articolo. Bubbole. Pinzillacchere marginali.
Vogliamo dirla la verità una volta per tutte? Eccola, nuda e cruda: quella del giornalista è la professione più inflazionata e meno qualificata d’Italia. Chiunque può formalmente diventare “giornalista” e poi legittimamente pretendere di operare da tale (viverci, va da sè, è un’altra cosa). Bastano una licenza di terza media, voglia di sbattersi un po’, un motorino e una sintassi accettabile. Filtri? Zero. Ostacoli, test, prove da superare? Nessuno. Diventare pubblicisti è irrisorio. Morale: la categoria scoppia. Siamo in 70mila in Italia e il sistema editoriale è in grado, ben che vada, di assorbirne (pagandolo decentemente) un quinto. Il resto è manovalanza pura, bruta, intercambiabile, meno garantita di un extracomunitario clandestino. Una poltiglia indistinta in cui affogano geni e ciarlatani, bravi e incapaci, promesse e falliti. Perchè se almeno i sindacati si strappano le vesti per i diseredati che raccolgono i pomodori sotto caporale, il (sedicente) sindacato dei giornalisti fatica perfino a concepire l’esistenza di colleghi “non contrattualizzati”. Figuriamoci se è in grado di tutelarli (e infatti, nonostante le chiacchiere, non li tutela, essendone incapace). Si è accorto solo ora, che è tardi, di questa moltitudine di gente nel 90% dei casi inadeguata, impreparata, smarrita, del tutto ignara dei rudimenti della professione, affamata, confusa.
Con la tragica aggravante che il mercato del lavoro giornalistico è talmente saturo da non riuscire ad assorbire neppure i bravissimi e i fenomeni.
Idem dicasi dell’Ordine, che adesso tuona contro la piaga dei sottopagati ma finge di non sapere di essere il padre di tanta prole.
Encomiabile, ma tardivo e inutile, il sondaggio bandito mesi fa dal presidente dell’Odg, Enzo Iacopino (i risultati qui) per stilare una tabella dei compensi, scandalosamente bassi, dei free lance. Lo scandalo vero è infatti che tutto ciò sia avvenuto solo ora, a frittata già fatta e irreversibile, e che anche l’Ordine continui a confondere in un unico calderone figure professionali tra loro (anche tariffariamente) incompatibili come i liberi professionisti, i co.co.pro, gli abusivi, i collaboratori fissi.
Ora ci sarà qualcuno che dirà che sono pure noioso, perchè predico sempre le stesse cose. Forse è vero. Inascoltate, però.
Ma finchè non si prenderà atto delle cose come stanno, senza tante ipocrisie e political correctness, resteremo solo quello che finora abbiamo dimostrato di essere: dei masochisti. E costringeremo ad essere tali anche quelli che non ne avrebbero la minima intenzione.
Hai voglia, come ha fatto il ministro per la Gioventù Giorgia Meloni alla presentazione della ricerca nella sede dell’Ordine nazionale dei Giornalisti, a proporre l’istituzione di un “bollino blu” che comunichi all’opinione pubblica quali siano le testate che rispettano il lavoro dei giornalisti.