In una mostra al Centro Pecci di Prato la storia, per la verità un po’ lacunosa, di quarant’anni di abboccamenti e di strizzate d’occhio tra due pilastri dell’espressione artistica odierna. Più che una virtuosa simbiosi, il connubio però sembra a volte un matrimonio d’interesse. Con MTV a fare da celebrante.

C’è una domanda che nasce spontanea visitando “Live! L’arte incontra il rock”, la mostra inaugurata giorni fa al Pecci di Prato e dedicata agli intricati rapporti tra arte e musica (dal vivo e non solo): quo vadis? Cioè: dove vuoi andare a parare?
Una domanda destinata a restare però, non senza un po’ di delusione del vostro cronista, senza risposta.
Perché se è facile farsi emozionare da una galleria di memorabilia al sapore di “come eravamo”, o se è suggestivo pensare che tutto si sia aperto in concomitanza con certe storiche ricorrenze (il concerto fiorentino dei Clash del 23 maggio 1981, qui, oppure il 70° compleanno di Bob Dylan, qui, sebbene nessuno dei due sia stato – strano! – menzionato in catalogo), ad una riflessione più approfondita viene anche da chiedersi se e quanto, nella circostanza, il rock abbia funto soprattutto da scusa per parlare d’arte. O viceversa, magari. Senza che la mostra sia capace di offrirti, alla fine del percorso, la dimostrazione dell’esistenza, o almeno la proposta, di un reale fil rouge tra i due mondi, pur apparentemente tanto vicini e simultanei da sembrare intrecciati.
Aperta fino al 7 agosto dalle 16 alle 23, martedì escluso (ingresso gratuito, altre info qui) è un’esposizione esplicitamente pensata per il grande pubblico. E se è vero che, almeno dal punto di vista del costume, nel connubio fatalmente ambiguo tra arte e commercio, verità e scena, sostanza e apparenza, autentico e finto, tutto trova forse la sua sublimazione, è vero anche che a conti fatti “Live!” pare non inseguire affatto, come sulle prime si potrebbe pensare, obbiettivi documentari. Né le esigenze di completezza esegetica che renderebbero soddisfatti gli appassionati dei rispettivi generi.
E’ viceversa una mostra – conclusione solo apparentemente ovvia – che sembra prendere le mosse dall’arte più che dalla musica. La quale, capovolgendo i termini delle premesse, alla fine si ritrova a fare da sfondo alla prima, a fungerne quasi da scusa, da catalizzare, nel tentativo (questo certo riuscito) di offrire al visitatore una visione a volo d’uccello, come in un gioco di riflessi, tra suoni e reminiscenze, tra istantanee e riff, tra cultura di massa e industria del divertimento, sui fenomeni che trovano il loro mastice nella declinazione pop della musica e del correlato merchandising: i gadget, i videoclip, i poster, la grafica. Ovvero i frutti di un sentire e un’industria che sono in essenza, e contemporaneamente, scienza e mercato, consumo e produzione intellettuale, sintomo e malattia della società di oggi e dell’immediato ieri. E in cui l’arte, gli artisti, o chi aspira a diventarlo, sguazzano. Al punto da costituire il liquido amniotico, lo scenario sul quale la musica finisce inconsapevolmente per muoversi.
Insomma una sorta di galleria di suoni e luci adatta a tutti, dai 7 ai 70 anni, ma in cui saranno probabilmente i quarantenni a sentirsi più a loro agio, tra echi glam e nostalgie punk, reminiscenze grunge e un rigurgito costante di grandi icone pop: Vasco Rossi, Madonna, Bob Marley e Michael Jackson. Sono questi i mentori, il monito permanente, l’incombenza del music biz, sempre sospesi tra l’oleografia da adesivo catarifrangente e il mito, tra i sapori salati dell’età adulta e i retrogusti agrodolci dell’adolescenza.
Non è un caso, del resto, che più dei rapporti osmotici tra arte e musica emerga spesso, negli allestimenti, la contemporaneità dei fenomeni legati o generati dall’una e dall’altra, la loro convivenza e a volte connivenza in contesti paralleli, ma non sempre realmente comunicanti tra loro. Audio e video, tele e oggetti risultano così oggetti intersecanti e sovrapposti nelle loro diverse declinazioni, come colonne sonore del caos metaquotidiano in cui tutti siamo immersi.
Ed è per questo che a volte si fa fatica a seguire il filo del discorso espositivo. Un filo che a tratti – almeno da un punto di vista musicale – appare come detto anche inspiegabilmente lacunoso.
Difficile ad esempio non rilevare, all’interno del percorso voluto dai curatori Luca Beatrice e Marco Bazzini, la mancanza di qualsiasi accenno delle cosiddette radici, cioè del rock and roll dei padri fondatori, da Elvis a Chuck Berry, sebbene fondamentali per la storia del costume anche dal punto di vista scenico e grafico, e di qualunque accenno alla pur eccezionale tradizione della musica nera (da Ray Charles a James Brown, fino ai Funkadelic di George Clinton, tanto per fare un esempio), rappresentata in mostra solo dalla tarda e musicalmente non edificantissima figura plasticheggiante (peraltro come tale onestamente rappresentata) di Michael Jackson.
La rassegna “comincia”, infatti, solo con il 1969. Perchè? Perchè – tenta inutilmente di spiegare una nota – il 1969 viene eletto qui “come la data principe dopo la quale il rock è diventato emblema di intere generazioni, rappresentativo di uno stile di vita e di un’ideologia comune che trova nelle opere in mostra un veicolo di diffusione di massa”. Sì, d’accordo. Sempre ammesso che sia così (personalmente ne dubitiamo). Ma perché?
Non ci è giunta nessuna risposta.
Appena sfiorati quindi i Beatles (il loro storico e ultimo concerto sul tetto della Apple Records a Londra, proprio quell’anno) e gli Stones dell’era pre Brian Jones, ignorati completamente la West Coast e i suoi fasti surfistici e lisergici (e i Beach Boys, i Grateful Dead, le copertine di Rick Griffin, i Jefferson Airplane. E i Doors? Tanto per limitarci agli arcinoti), nonché tutta o quasi l’epopea psichedelica, per assumere come punti di partenza i concerti di Woodstock e di Altamont, come se nulla fosse accaduto prima. Lo stesso dicasi per gli strani “vuoti” che via via si registrano in caselle che molto hanno dato sia sul versante delle esibizioni live che delle arti visive ad esse applicate: dal progressive (le copertine di Yes e Genesis, ad esempio) all’heavy metal. Per non parlare della totale eclissi in cui paiono relegati tanto il cinema rock (da “Tommy” a “Quadrophoenia”, mentre si parla di “Pink Floyd at Pompeii”), quanto forse il più grande e longevo animale da palcoscenico di tutti i tempi, Bruce Springsteen. Una scelta che sorprende, questa, al cospetto poi dell’inattesa attestazione di espressioni artistiche di pura nicchia, come il lo-fi audiografico di Daniel Johnston.
Ben più articolato il binario su cui scorre il carrello dell’arte contemporanea, illustrata in un articolato mosaico multidisciplinare che accosta Yoko Ono e Andy Warhol, Robert Mapplethorpe e Sandro Chia, Keith Haring e Massimo Kaufmann, Damien Hirst e Tony Oursler, fino agli opposti di David Lachapelle e Fausto Gilberti.
E’ una mostra a tratti enigmatica, insomma, questa di Prato, un po’ Rock and Roll Hall of Fame e un po’ Hard Rock Cafè (che sta per aprire la nuova sede di Firenze: una coincidenza?), ora stimolante e ora deludente, più adatta forse all’amarcord e alle suggestioni che all’approfondimento. Non a caso sullo sfondo, e in fondo a tutto, “gira” il loop della “100 Gratest Hits of all the Time” di MTV Classic. Quasi a dire: in fondo, it’s only rock and roll. Anzi, pop.