In un pepato post su FB il collega Ivano Sartori pone una vecchia questione risollevata dall’attualità: il giornalista che scrive di turismo, o d’altro diverso dalla cronaca, dovrebbe astenersi da articoli su destinazioni “canaglia”?
E’ una domanda che chiunque faccia questo mestiere con un briciolo di coscienza, e abbia nozione della natura della professione giornalistica, si è posto almeno una volta. E premetto di essere convinto da sempre che, qualunque sia il proprio campo di “specializzazione”, uno prima è giornalista e poi, casomai, è “specializzato” in qualcosa.
Se dunque si è inviati da qualche parte per scrivere di un tema o di un settore particolare, è giusto – cioè deontologicamente corretto, eticamente accettabile, socialmente tollerabile – far finta di non vedere il resto, male compreso? O, pur vedendolo, omettere di riferirlo, se non strettamente connesso con l’oggetto del nostro incarico?
Secondo Sartori, no. Dovresti anzi fare il contrario. E se non lo fai, sei complice.
“So di colleghi che dopo la strage al museo del Bardo accettarono l’invito delle autorità tunisine a visitare il Paese, scrivendone un gran bene“, dice in sintesi (per l‘intero post leggere qui). “Partissero pure i vacanzieri, il Paese era sicuro: dopo qualche mese, 39 turisti ammazzati in spiaggia. In cambio di un piatto di lenticchie i cronisti rassicurarono i potenziali turisti. Che abbiano davvero creduto a quel che fu loro mostrato o abbiano finto si resero complici di un’operazione di marketing senza scrupoli. Oggi, sul banco degli imputati, oltre all’Egitto abbiamo la Turchia. Non sarà firmando appelli che gli faremo cambiare registro. Nel nostro piccolo possiamo solo fare una cosa: raccontare tutto ciò che può scoraggiare il turismo lì. Sia per invitare i connazionali a non correre rischi, sia per concorrere al sabotaggio dell’attività turistica di quei Paesi. Tutti i giornalisti che si recheranno laggiù non per documentare la situazione, ma per fare l’apologia delle attrattive turistiche sono da considerarsi dei venduti“.
Sul social il dibattito ha preso un’antipatica piega ideologica (chi è canaglia e chi no?) che io non commenterò.
Mi pare molto più importante il cuore della questione, che ha implicazioni più sottili e complesse di quanto potrebbe sembrare.
Quando recensisco un ristorante devo chiedermi, ad esempio, se il personale è in regola con le norme sul lavoro e, in caso negativo, devo denunciarlo o stroncare il locale o perfino astenermi dal recensirlo, per non rendermi “complice” dello sfruttatore? Di preciso dove comincia lo sfruttamento? E dove il mio dovere di indagine?
Se mi chiedono di andare in Cina a seguire una conferenza sull’ambiente o sull’economia dovrei rifiutarmi, salvo avere la garanzia di poter anche riferire sugli scempi sociali di quel paese?
Quando provo un’auto o un altro prodotto devo boicottarlo perchè certe componenti sono fabbricate nel terzo mondo e/o in condizioni che non ritengo eticamente accettabili?
E, per tornare allo specifico dei viaggi, fino a che punto devo tollerare (o meglio, fino a che punto i miei obblighi deontologici mi consentono di tollerare) di essere “embedded” in situazioni più o meno propagandistiche? O, viceversa, entro quali limiti devo invece assecondare il programma e il piano di lavoro, eseguendo l’incarico professionale datomi dal committente, incarico che, è bene ricordarlo sempre, nel caso dei giornalisti è comunque fiduciario?
Raccontare un tour per siti archeologici o raccontare fatti di costume significa davvero essere complici di un eventuale governo locale sanguinario? L’oggetto circoscritto dell’articolo può essere l’alibi per girare lo sguardo da un’altra parte?
In definitiva: quali sono, se ce ne sono, i confini che separano la coscienza individuale dall’ etica professionale e quali quelli che scandiscono la deontologia del singolo giornalista da quella della testata per cui lavora?
E infine: se mandato a scrivere di viaggi, o di cultura, o di costume, o di altro, siamo certi che io sia o mi debba sentire responsabile della sicurezza di chi viaggia al di fuori dello stretto ambito di cui sono stato inviato ad occuparmi?
E’ una domanda che porgo volentieri ai colleghi, sperando che il tema non venga banalizzato dalle convinzioni politiche di ognuno.