Settore per settore, la nozione di “normalità” muta nel tempo secondo l’evolversi della società. Occorre  prenderne atto e domandarsi se, con l’evoluzione, le cose non finiscano per trasformarsi in altro, con nome e funzioni diverse. La stampa, ad esempio…

 

Fino a non molto tempo fa la normalità dell’informazione consisteva nel comprare un giornale e da lì attingere le notizie. Con accettabile variabilità secondo tipo di testata, linea editoriale e indipendenza, queste notizie erano messe in pagina secondo una certa gerarchia di importanza e, prima di essere pubblicate, passavano comunque da una serie di filtri, verifiche e valutazioni effettuati da professionisti. Il tutto col fondamentale scopo di garantire veridicità, attualità e chiarezza dei contenuti.

E’ vero, qua e là intervenivano, in modo invero sempre un po’ più invasivo ma ancora ragionevolmente tollerabile, pubblicità e propagande varie, che grazie alla filiera suddetta si cercava comunque di tenere sotto controllo o almeno nell’alveo della decenza.

Per tutta una serie di oggettivi fattori socioeconomici, evidenti agli occhi di tutti, da qualche lustro quella normalità però non è più tale: la progressiva scomparsa degli editori puri, l’abbassamento graduale dei freni deontologici e dei relativi controlli, una formazione sempre meno selettiva dei giornalisti con il conseguente calo della professionalità media, l’assottigliarsi sempre maggiore delle redazioni e pertanto del filtro che esse costituivano, la tendenza alla cosiddetta “disintermediazione“, la corsa al “subito” imposta dalla rete e il dilagare dell'”autopubblicazione” anche tra i giornalisti, che così facendo rinunciano alle verifiche e alle valutazioni di cui sopra, hanno fatto sì che non solo sia sempre più difficile distinguere l’informazione dal resto (qualunque cosa esso sia e in qualunque modo esso di manifesti), ma che si debba chiedersi se l’informazione  – nel senso “normale” illustrato in apertura – esista ancora.

Per rendersi conto dell’attualità della questione basta che uno sfogli un qualunque quotidiano o periodico, oppure navighi in rete: si scontrerà con una melassa indistinta in cui trovare la notizia e soppesarne l’effettiva importanza è cosa ardua tra infotainment, frivolezze, marchette, reclame, pubblicità occulta e preponderanti vaniloqui che invadono le posizioni apicali dei titoli.

Non c’è bisogno di dare di tutto questo un giudizio etico o qualitativo, basta limitarsi a riscontrarne l’oggettiva esistenza. Tale da coprire il 95% del teorico orizzonte informativo.

Da qui l’idea che a ciò possa essere giunta l’ora di dare un nome nuovo, più adatto alla realtà delle cose. E anche di darlo a noi che – sempre più eccezioni e sempre meno regola – pro forma ci chiamiamo giornalisti ma sempre più spesso siamo chiamati a fare altro. Cioè un altro lavoro parallelo, simile nella forma ma non uguale nella sostanza all’altro.

Nulla di male, i cambiamenti fanno parte della vita.

Però nessuno si scandalizzi se poi ci chiamano comunicatori e, peggio, se anche previdenzialmente e teoreticamente vogliono assimilarci a chi, in teoria, farebbe un mestiere opposto al nostro. Cioè i comunicatori veri.

Se il quadro è questo, quale deve essere la cornice che lo contiene?

Pure su questo punto, se fossi un’istituzione (giornalistica o meno), qualche domanda me la farei.