A legare la chiusura di Mondodisco, famoso negozio viareggino di vinili, e la sospensione dell’informazione giornalistica professionale di Antenna Radio Esse, storica emittente senese, c’è un filo sottile filo. Arancione come un tramonto, ma malinconicamente tiepido.

 

A legare le vicende, non solo toscane, della chiusura di Mondodisco, il famoso negozio viareggino di vinili & co. amato da generazioni di appassionati, e della “sospensione” dell’informazione giornalistica di Antenna Radio Esse, storica emittente radiofonica senese a cui già giorni fa ho dedicato qui una nota, c’è un sottile filo arancione.

Arancione come il tramonto. Purtroppo non caldissimo come quello californiano evocato molti anni fa per il rock della West Coast da un ispirato Riccardo Bertoncelli ed anzi piuttosto, malinconicamente, tiepido.

I due casi paiono infatti il sintomo di uno stesso fenomeno, ovvero del crepuscolo di quello stile di vita e anche di quelle aspirazioni che hanno permeato di sè l’intero quarto di secolo 1965-1990: il sogno, a volte però realizzabile, di far convergere la passione in un lavoro e viceversa.

Un sogno pieno di liturgie che trovavano una loro sintesi, anzi che si celebravano nel tempio mediatico più simbolico e rappresentativo di quell’epoca: la radio. Una radio dove e da cui si trasmettevano notizie e anche una musica la fonte della quale (surrogato magnetico a parte) poteva allora essere una sola: il disco. Disco di cui, a nostra volta, si poteva approvvigionarsi – soprattutto se non si trattava di canzonette sanremesi o da ballo – in un solo altro, sacro e deputato luogo: il negozio di dischi. Il quale era al tempo stesso punto di ritrovo (allora si sarebbe detto di aggregazione), un cenacolo, una sede di scambi, di discussioni e di confronti. Nonchè un’attività commerciale che, grazie a un mercato vero e non virtuale, poteva campare, quando a volte non prosperare.

Così, in un gioco di vasi e di ambizioni comunicanti, il circolo si chiudeva e nelle salette tappezzate con gli imballi delle uova nascevano e crescevano le esperienze dei cronisti per caso e quegli appassionati discomuniti destinati, almeno qualcuno, a passare da dj a critici e perciò a giornalisti musicali e quindi, poi, a giornalisti e basta.

In bilico su tutto questo stava un sistema economico a sua volta basato sui due piedistalli citati sopra: la passione e la professionalità, capaci di alimentarsi a vicenda.

E invece…

E invece – scegliete voi da che punto partire, ovvero in quale punto l’equilibrio si rompe – la logica della gratuità da troppo benessere ha avuto il sopravvento: l’informazione, o quella spacciata per tale a gente che ci crede, si ottiene gratis ed è realizzata da persone che, se vogliono farla, devono comunque farla gratis, cioè da volontari, ovvero da dilettanti, ergo senza alcun know how, ricorrendo di conseguenza, per forza di cose, a strumenti e a materiale gratuito, la cui gratuità in quanto tale non può però garantire nè l’origine nè la qualità, ma che si possono ottenere altrove, senza acquistarli.

Rebus sic stantibus, a che servono e come campano coloro i quali con l’informazione ci vivono e quei materiali li vendono? A nulla, si capisce.

Eccoci perciò alla chiusura del cerchio: la radio (che si ascolta gratis) si fa con la musica scaricata gratis e nessuno più compra i dischi, nemmeno i dj, mentre, come del resto nei giornali di carta, anche per i radiogiornali al posto dei giornalisti si chiamano i “volontari”, cioè gli appassionati, cioè i dilettanti.

Diceva Peter Green: “The end of the game“.

Appunto.