Sempre più colleghi (e non) mi dicono che il giornalismo “è cambiato” e che dovrei adeguarmi. Nulla in contrario. Ma in realtà mi si chiede di cambiare mestiere, come dimostrano certe “circolari”. Qui ci vorrebbe Gómez Dávila…

 

Giorni fa a cena un caro amico ha cercato di convincermi, probabilmente a ragione, ad esplorare strade nuove e “più moderne” per mettere meglio a frutto, anche economicamente, la mia ahimè ormai molto annosa esperienza e la mia professionalità.

Pur essendogli riconoscente per la proposta, la quale sottindendeva una stima personale che senza dubbio mi ha gratificato, ho tuttavia cercato di spiegargli che il mio vissuto e soprattutto  la mia vocazione, nonchè i miei modesti talenti, erano quantomai lontani da quelle strade. Una lontananza dettata non da banali motivi anagrafici o da un aprioristico rifiuto della “modernità”, ma perchè, molto più semplicemente, si trattava di soluzioni proprio estranee alle mie corde.

In senso etimologico: esse non trovano posto nel mio cuore e, quindi, nel mio spirito.

Ho anche insistito nello spiegare che nel mio atteggiamento non c’era alcuno snobismo e neppure, inutile fingere modestia, alcuna sindrome da volpe ed uva, sentendomi in teoria perfettamente in grado di abbracciare certi percorsi, se lo volessi.

Ma non lo voglio, è più forte di me. Lo farei obtorto collo e senza la necessaria dedizione, con risultati conseguenti.

L’infotainment, la monetizzazione ad ogni costo, l’inevitabile esibizionismo implicito in certe attività, le reclami più o meno camuffate, l’ambiguità – lecitissima e necessaria, intendiamoci – per “vendere” non rientrano tra le mie capacità spontanee. Sono anzi l’esatto contrario di ciò che desidero fare.

Racconto tutto questo non per fare inutili confessioni, ma perchè oggi mi è capitata tra le mani per vie traverse una circolare, pulcinellescamente riservata si capisce, con la quale un importante mediatore di pubblicità propone a certi produttori pacchetti cumulativi di contenuti promozionali a pagamento sotto forma di articoli giornalistici (nb: non pubbliredazionali, proprio articoli o almeno testi aventine tutte le sembianze, firme comprese) su alcune primarie testate d’informazione nazionali, tra cui una notissima agenzia di stampa, preclari quotidiani e periodici, etc.

Ecco, pur essendo io tutt’altro che di primo pelo e niente affatto una vispa Teresa che casca dal pero, devo ammettere che una cosa è sapere ciò che sotto traccia tutti sanno, spesso praticano e tacitamente accettano, ossia la pubblicità occulta, un’altra è vedersi la medesima cosa sbattuta in faccia con tale spudoratezza e svergognata ostentazione da farti sentire una piuma che in qualunque momento può essere spazzata via dalla brezza del soldo e, si capisce, del marketing.

La riflessione è stata allora la seguente: se io non so farlo per gli altri, figuriamoci per me stesso.

Il bello, naturalmente si fa per dire, è che alla fine il venerato lettore sovente crede alle fregnacce che legge e ti crocifigge se non gliele scrivi come vuole lui, cioè finte o per lo meno edulcorate.

Nessuno si offenda: ho detto sovente, non sempre.

Scenderemo dunque muti nel gorgo della professione che fu (se davvero fu)?

Mi piacerebbe commentare con un aforisma di Nicolás Gómez Dávila passatomi sotto gli occhi giorni fa e che ovviamente ora non rammento alla perfezione, ma il senso era questo: il problema non è avere opinioni e difenderle argomentandole, ma avere consapevolezza di quali sarebbero le conseguenze se quelle opinioni fossero trasformate in fatti ed essere disposti ad accettarle.