Una volta la stroncatura era quasi un genere letterario, oggi anche una semplice critica negativa pare un atto di lesa maestà e larga parte se ne astiene, con motivazioni discutibili. Il punto, in realtà, è agire sempre da giornalisti, stando alla larga dai tentacoli del marketing.

 

Questa mattina l’amico e collega Carlo Macchi ha pubblicato sulla sua testata on line Winesurf (qui) un articolo dal titolo stuzzicante: “Il giornalismo enoico è a senso unico?“. L’assunto era che, per varie ragioni che egli ben spiega, è ormai impossibile o quasi trovare sulla stampa articoli di critica enoica che giudichino negativamente un vino o ciò che gli ruota intorno.

Dopo un breve sondaggio sui social sembra che “sia brutto” parlar male (con motivazioni giuste etc)… uno preferisce tacere o, in qualche caso, parlare a quattr’occhi con il produttore“, spiega Macchi. Il quale si chiede quindi, giustamente, se con quest’andazzo “buonista” si possa ancora parlare di giornalismo e non di qualcos’altro che somiglia molto, ma questo lo dico io, alla marchetta.

Vorrei però allargare il campo a tutti i settori della professione. Tra i quali, garantisco, serpeggia una sindrome non troppo differente rispetto a quella illustrata.

E fare alcuni distinguo.

Innanzitutto quello tra giornalisti e non giornalisti e tra le rispettive funzioni, doveri e responsabilità, distinzione oggi resa sempre più opaca dal progressivo sovrapporsi delle figure attive in ogni ramo (blogger, influencer, sedicenti, aspiranti, venditori, pubblicitari) e, in virtù di una sorta di buonismo parallelo, dalla tendenza a dare a chiunque patenti che non ha. Eh, no: mentre un non giornalista, prezzolato o meno, può scrivere ciò che vuole accollandosi al massimo la mera responsabilità morale di quanto afferma, un giornalista che, recensendo in malafede qualcosa, non dice il vero, si assume anche una responsabilità deontologica e professionale. La quale è, in teoria (ma qui si aprirebbe un’altra voragine), sanzionabile dall’Ordine di appartenenza. Insomma non è affatto la stessa cosa.

Poi distinguerei tra recensire solo cose belle e buone e recensire anche quelle brutte e cattive. Qui la faccenda è più sfumata e dipende dai casi. Scrivere solo di vini, o libri, o abiti o auto belli non è di per sè un errore o un atto di disonestà. Direi che è più una scelta editoriale. Per l’ovvio motivo che, se recensisco unicamente ciò che è bello, è per opposto evidente che ciò che non recensisco vale probabilmente di meno. Intendo dire che la mancanza di stroncature non è automatico sintomo di accondiscendenza, mancanza di coraggio o aperta collusione. A condizione che, si capisce, nella circostanza in cui invece la critica negativa o l’articolo critico fossero necessari, essi giungano senza pietà nè esitazioni.

Altro distinguo è tra criticare negativamente e “parlar male“. La differenza è abissale, ma spesso fa comodo fingere di non capirla. Il criticato tende infatti a percepire le critiche come un attacco personale e ad attribuirle a ragioni tanto oscure quanto irriferibili. Ciò ovviamente può accadere e non dovrebbe. Anche perchè il giornalista, per quanto pungente, è obbligato al rispetto e alla moderazione dei termini. Ma, a parte questi casi direi patologici, il parlar male implica una malizia che è agli antipodi del diritto-dovere di cronaca e di critica.

Alla fine la questione, a mio parere, non risiede quindi tanto nel recensire bene o male e criticare bene o male qualcosa. La questione è non scrivere cose spiacevoli quando è necessario scriverle. Ciò può avvenire per autocensura un po’ moralistica (“c’è gente che lavora“) o per prostituzione intellettuale (cit.), ossia perchè c’è una qualche mercede. In questo caso, però, bisogna rifarsi a un principio essenziale di questo mestiere: se sono giornalista, a pagarmi è un editore; se a pagarmi è il recensito, non faccio il giornalista. Nè dovrei esserlo.
In definitiva, ci ritroviamo tutti a fare i conti con la tentacolarità del marketing, che, al contrario di quanto si pensa, raramente “compra” in modo brutale i consensi, ma lentamente e assai più astutamente li indirizza, li condiziona, li orienta e crea i presupposti affinchè ciò accada: da qui l’esigenza nostra, da cui dipende la stessa sopravvivenza professionale, di tenere alla giusta distanza quei tentacoli. Alla carezza dei quali è difficile sottrarsi, ma dalla morsa dei quali è indispensabile rifuggire.
L’alternativa è affogare nella melassa che Carlo Macchi ha ben descritto e in cui non si “parla male” mai di nessuno. Che però è un altro mestiere.