Mi sto quasi convincendo: meglio l’abolizione dell’Odg della “riforma” presentata giorni fa, che vuole la fine dell’esclusività professionale, un praticantato “universitario” e dove i pubblicisti restano in un limbo, tra norme virtuali e sottopagamenti cronici.

 

Giorni fa ho assistito on line a uno sconcertante comizio-stampa in cui, compatti (il che preoccupa), i vertici di Odg, Fnsi e Inpgi presentavano le “linee guida” (qui) per la riforma dell’Ordine dei Giornalisti.

Tutto, si dice, per prevenire i venti di guerra governativi che soffierebbero a favore dell’abolizione tout court. Sempre ammesso che il pericolo sia vero, si capisce. E che la toppa sia davvero migliore del buco. Cosa su cui, visti i risultati, è lecito dubitare.
La questione, comunque, sarebbe seria se affrontata in modo serio.
Invece è diventata subito grottesca, visto che s’è cominciato dall’ipotesi del nuovo nome da dare all’istituendo organismo: “Ordine del Giornalismo“. Scelta già di per sè involontariamente umoristica e poi motivata con acrobazie logico-dialettiche ancora peggiori. Non mi soffermo neppure a commentarla.
Si è parlato quindi dell’accesso alla professione e dell’abolizione del praticantato, altra questione che sarebbe seria se affrontata seriamente. Peccato che, alla fine, essa paia ridursi a un problema di possesso di titoli accademici, quando è arcinoto e soprattutto dimostrato dall’esperienza che questo mestiere, e soprattutto la capacità di esercitarlo, non può prescindere anche da un consistente tirocinio pratico.

Intendiamoci: io per primo predico da sempre la necessità che il giornalista abbia un profilo culturale alto e il più possibile variegato, ma la cultura generale è inutile se sposa conoscenze solo teoriche. Problema al quale le bislacche “linee guida” pensano di rispondere con la surreale previsione di una sorta di ossimoricopraticantato teorico“, Ovvero una “pratica giornalistica all’interno di un corso universitario annuale e un master di giornalismo post laurea riconosciuto dall’Ordine“.

Traduzione: faccio pratica nell’ambito di un corso universitario, che per definizione è teorico.

No comment pure qui.

Poi c’è il delicatissimo nodo dei pubblicisti. Categoria che per certi aspetti non conta nulla ma che per altri conta moltissimo, essendo (non certo nella base, trattata da carne da cannone, ma nella figura dei capataz, che la usano a colpi di tessere) la “padrona” dell’Ordine. L’esigenza di tutelare tale categoria ha costretto gli estensori della bozza di riforma al massimo equilibrismo. Al punto di condizionare la riforma medesima (“quando saranno concretamente divenuti praticabili i nuovi percorsi…“) all’avvento di norme virtuali. Roba da matti.

Quindi, tanto per cominciare, gli attuali pubblicisti non si toccano e l’elenco va avanti fino a esaurimento. Messe così in ghiaccio 70mila quote.

I nuovi pubblicisti dovranno invece avere la laurea, superare un “colloquio” alla fine del biennio, essere iscritti a “un” (come “un“? L’Inpgi2 è d’accordo? Ma forse la spiegazione è dopo: vedi postilla) ente previdenziale e soprattutto, ogni sei mesi, comprovare ricevute di pagamento alla mano di svolgere un’attività retribuita.

Ed ecco ricadere il duplice asino.

Innanzitutto, nuovamente addio (eufemisticamente sancito come “in caso di“) all’unica innovazione seria e responsabile che avrebbe dovuto essere perseguita: albo unico con esame di accesso per tutti e, solo dopo, scelta tra la via del professionismo e del pubblicismo.

E poi, senza stabilire l’entità minima della pretesa retribuzione (entità da fissare oltre una soglia che possa rendere il compenso definibile una reale “retribuzione”), e senza armonizzare tale soglia in modo che sia uguale in tutte le regioni, tale perciò da costituire una sorta di tariffario di fatto, tutti i problemi attuali, cioè compensi simulati o simbolici e l’avallo di un pubblicismo sostanzialmente gratuito, rimarranno immutati. Così come i problemi della professione.

Non mancano, qua e là, altre insidiose perle. Come che “…fino a quando i nuovi percorsi dell’accesso all’Albo professionale non saranno concretamente praticabili si potrà altresì chiedere l’iscrizione all’Elenco Pubblicisti, anche per consentire l’accesso all’Ordine delle figure professionali sviluppatesi in Rete con le nuove tecnologie“. In altre parole, si vuol far legna non costringendo i blogger che vogliono realmente fare informazione a diventare giornalisti, come sarebbe normale, ma offrendo loro la possibilità di iscriversi all’albo anche senza lavorare per testate registrate, non si capisce in cambio di quali garanzie e verifiche di terzietà e rispetto della deontologia.

Inquietantemente oscuro è anche il punto sulla “registrazione degli uffici stampa“. La previsione dice testualmente: “Ciascun Consiglio regionale dell’Ordine istituisce il Registro degli Uffici Stampa pubblici e privati in cui operano solo giornalisti regolarmente iscritti all’Albo“. Cioè? Alla fine, quale differenza pratica ci sarebbe, se non solo nominale, tra uffici stampa privati registrati o meno? Un cliente che volesse affidare loro un incarico quali maggiori garanzie di professionalità avrebbe? Perchè o si sancisce che anche l’ufficio stampa privato è attività giornalistica a tutti gli effetti, e quindi può essere svolta solo da chi è iscritto all’albo, oppure no. Ma allora, nel secondo caso, la registrazione a che servirebbe?

 

Postilla. Era sospesa la questione dell’obbligo del pubblicista all’iscrizione a “un” ente previdenziale anzichè all’Inpgi2, come oggi sarebbe obbligatorio per i giornalisti. Secondo me la spiegazione della strana norma è la seguente: nell’ipotesi di abolizione dell’esclusività professionale, è ovvio che un giornalista professionista possa anche svolgere altre attività, tipo quella medica o forense, con relativa iscrizione, quindi, alla corrispondente cassa di previdenza anzichè a quella dei giornalisti. Il che equivale a un altro passo verso l’autoabolizione.