Basta monitorare quello specchio della società che sono i social per cogliere il disorientamento di chi è o aspira a essere iscritto all’Albo dei Giornalisti. Del quale del resto oggi si fa fatica a individuare fisionomia e prospettive.

 

Prendo a caso un recente post sulla pagina “Giornalisti italiani su FB” che, in sintesi dice: “Mi offro per lavorare gratis, chi mi piglia?“. Segue una sfilza di contumelie, ironie, prese per i fondelli, reazioni rabbiose. Tutto nell’intimorito silenzio del malcapitato. Ed episodi del genere sono frequentissimi.

Tutti inevitabili e tutti, toni a parte, giustificati, visto che non se ne può più di gente che cerca di coltivare un hobby a danno di chi lavora o, peggio ancora, ha smesso di lavorare per il dilagare degli hobbysti.

Non sono certo io, del resto, il primo a cogliere i sintomi del progressivo incanaglimento della nostra categoria, alle prese da decenni con un’involuzione generale dovuta, ad essere sinceri, non solo a noi giornalisti.

Meno facile è cogliere però, al di là degli episodi-provocazione, le ragioni profonde di questa biliosità reciproca e diffusa, a cui a da qualche tempo si aggiunge una sorta di perdita di coesione interna che somiglia sempre più a un generale smarrimento di identità professionale.

La somma di questi fattori rischia però di essere, se già non lo è, esiziale.

Va detto che la classe giornalistica italiana e il mestiere in sè hanno sempre sofferto di un tendenziale incanaglimento, dovuto al cinismo cui la professione costringe e che si potrebbe definire quasi una deformazione. In ciò risiede il suo limite e, ammettiamolo anche se può apparire paradossale, il suo fascino.

Ma a parte questo pesano sempre di più i limiti di un’architettura ordinistica obsoleta (il dualismo pubblicisti-professionisti, plasmato oltretutto sul modello del giornale quotidiano) e un percorso di accesso alla professione che, ulteriore paradosso, diventa ogni giorno più difficile da percorrere ma, al tempo stesso, sempre meno qualificante e professionalizzante.

Il risultato è che in continuazione, da anni, il sistema vomita un altissimo numero di giornalisti di tesserino, ma non di fatto, i quali finiscono poi per disperdersi nei mille rivoli del borderline e delle attività “affini”, senza minimamente cogliere le differenze tra l’una e l’altra, senza maturare alcun senso di appartenenza alla categoria e alle sue regole fondamentali nè, di conseguenza, alcun istinto di difesa della dignità, la coerenza, la credibilità della medesima.

E’ una sensazione che i colleghi delle vecchie generazioni riescono a percepire con facilità, mentre per i giovani, cresciuti in una temperie già deteriorata, è a volte meno semplice. Ma non è meno acuto il loro disagio e lo smarrimento nel quale queste nuove generazioni di giornalisti – non certo per colpa loro – annaspano da tempo, giustamente lamentandosene.

Non mi riferisco alla resistenza passiva degli appartenenti alla presunta “corporazione”, termine con il quale chi non sa di cosa parla liquida, spesso in malafede, la faccenda dei giornalisti. Mi riferisco alla consapevolezza di far parte di una categoria che, al di là delle differenze tipologiche, si riflette in un insieme di diritti, doveri, regole comuni.

Basta però monitorare i social per capire a che punto sia arrivato il disorientamento di chi si trova iscritto o aspira a iscriversi a un albo professionale del quale oggi si fa onestamente fatica a cogliere la fisionomia. Per non dire delle sfuocate prospettive che offre.

Un’opacità dalla quale derivano anche abbagli, errate aspettative e pure una certa ostilità preconcetta, che si traduce sia in scontri intergenerazionali privi di senso, sia nella frequente aggressività populistica della cosiddetta società civile nei nostri confronti. Tutte cose che non giovano alla chiarezza di ruoli, funzioni, priorità del nostro mestiere.

Da parte sua, l’OdG sconta le conseguenze di una base resa polverizzata e dispersa, di una crisi del sistema che senza dubbio non aiuta, di una polarizzazione correntistica interna tanto controproducente quanto, temo, irreversibile nei suoi effetti e, ciliegina finale, della sostanziale mancanza di controllo del proprio destino, vista la pluridecennale renitenza della politica e del Parlamento ad affrontare l’almeno quarantennale nodo della riforma di una legge professionale risalente al 1963. Sul lato previdenziale stendiamo un velo pietoso, viste le recenti vicende Inpgi/Inps e la melma nella quale viene lasciato a vegetare, nel nome dei giochini di poltrona, l’Inpgi ex 2. Sulla questione sindacale non mi pronuncio, avendo già detto mille volte tutto il male possibile.

Individuare vie di uscita è difficile.

Io non ne vedo. Nè di semplici, nè di praticabili nei tempi necessari a salvare il salvabile.

I tentativi ordinistici di forzare la mano delle riforme mi paiono confusi e talvolta demagogici, spesso dettati  dall’ansia di difendere più l’istituzione che la professione. Sulla base, in gran parte smarrita e colpevolmente assenteista al momento di partecipare in modo attivo, come ad esempio votare, non si può contare. Mi pare che predomini un comprensibile fatalismo e che l’idea di allargare le maglie della categoria per estenderla a professionalità improbabili finirà per produrre solo un ulteriore annacquamento, fino alla diluizione definitiva e l’affidamento dell’informazione a chi ha interesse a orientarla.

Dispiace che molti fingano di non vedere quest’evidenza.