di FEDERICO FORMIGNANI
Terza puntata della rubrica su lingue e dialetti. In Padania le acque che confluiscono nel grande fiume hanno assunto storicamente, secondo tempi e luoghi, nomi diversi.

 

Non è più abbondante e pura come un tempo e i veleni inquinanti l’aggrediscono di continuo, ma l’acqua rimane l’elemento dominante di quella grande area chiamata Padania. Un bacino, quello del Po, che supera i 70.000 kmq e accoglie le acque della catena alpina da nord e degli Appennini da sud, per convogliarle nell’Adriatico. Acqua, parola nobile e antica, proveniente dal termine latino aqua(m), di origine indoeuropea; parola, inoltre, dai molteplici significati e adattamenti. Nelle prose del Duecento è detto acqua il corso di un fiume; acqua da bere, a quei tempi, tant’è che Dante, nel 1321, definisce acqua mera l’acqua pura. Nel secolo XIV le aque erano anche le onde del mare. L’italiano antico, poi, registra nel 1469 la voce generica plurale di laqque per indicare ogni elemento liquido.

L’acqua dei dialetti padani ha molte facce. Attorno al 1400, per esempio, i genovesi chiamano aiga il mare, aigoa il fiume e ägua il ruscello, il torrente. Per l’antico piemontese l’acqua è éva mentre nel 1200 l’aiva del flum rappresenta una grande quantità d’acqua che scorre. Per l’antico lombardo (inizi del secolo XIII), l’aqua plana è quella che scende lentamente; nel 1476, a Mantova, chiamano acqua frescha, netta, l’acqua di fonte da bere. Spostiamoci nel Veneto. Nel 1250 l’acqua è aigua; l’antico padovano (secolo XIV) registra aque amare per acque salmastre, mentre il dialetto veneziano chiama aqua churente quella del fiume (1477) e aque piene e sece (nel 1490), la piena e la secca di un corso d’acqua.

Trascorrono i secoli e anche i termini dialettali assumono nuove forme, significati diversi.

Così troviamo a Sanremo l’aiga tria (acqua trita!), che è la pioggerella.  A Monaco Principato, la cui “lingua” ufficiale è un dialetto ligure, chiamavano áyge di morti le piogge di inizio novembre, mentre a Mòrtola, in provincia di Imperia, ci sono le altre piogge novembrine: le áighe d’i Santi.

Un termine piemontese del 1832 definisce aqua giàssa l’acqua gelata dei monti, mentre uvèri è l’allagamento. A Galliate, nel novarese, il terreno acquitrinoso è detto aquénto. Bella è l’aqua nascente della Lombardia orientale: “aqua che geme dalla terra”; così la definisce Tiraboschi, autore del dizionario bergamasco. A Mantova c’è l’aqua piovantàna (quella piovana) e a Gandria, nel Ticino svizzero, l’aquatìn è una polla d’acqua che mantiene umido il terreno.

Torniamo nel Veneto, terra ricca di acque e di parole. Nel Polesine le aque bianche sono quelle dell’Adige, che passano nel Canal Bianco a mescolarsi con quelle torbide del Tartàro.

Nel padovano chiamano aqua colombina quella superstite di una piena, mentre l’aqua mista la si trova fra due flussi di maree e l’aqua nova si presenta terrosa perché segue un acquazzone.

A Chioggia c’è l’aqua basana (deflusso dell’acqua nei canali), l’aqua remeschissa (quella della foce che si mescola al mare) e quella de paluo (di palude). In Emilia, a Guastalla, chiamano aqua marsa l’acqua guasta, putrida e nel parmense aqua corìa e fissa, l’acqua corrente e quella fangosa.

Troveremo tutto nel Po, fiume-padre, terminale naturale dei fiumi-figli scesi dai monti.