Io non ho fatto il Sessantotto, come molti si vantano di dire. Non ne avevo l’età, nè il carattere.
Nonostante fosse in età, non credo l’abbia fatto neppure Bruce Springsteen, che oggi compie 68 anni. Al massimo l’avrà vissuto. Salvo errori della mia memoria, all’epoca il futuro Boss era sospeso tra i Castiles e gli Earth e credo avesse molto più a cuore il rock and roll che la politica.
Oggi invece è uno splendido quasi settantenne, giovanile, pimpante, amato, venerato. Una leggenda.
Difficile non compiacersi per la sua festa di compleanno: gli vogliamo tutti bene.
Trovo ad esempio ancora sopportabile il suo giovanilismo. E lo ritengo, come l’evidenza dimostra, ancora un formidabile performer.
Ho viceversa perduto da tempo le tracce dell’artista e cerco di mentire a me stesso quando in lui mi pare di intravedere solo il motore di una lubrificatissima, perfetta macchina da spettacolo. Incredibile la sua capacità di recitarsi e di apparire, forse perfino di essere vero.
Ripercorro allora ritroso, con crescente riverenza ma con sempre minore entusiasmo, i suoi dischi dell’ultimo quarto di secolo e anche oltre. Se tolgo un’opera fuori passo come Nebraska e un album troppo sottovalutato, anzi incompreso, come Tunnel of Love, le cose veramente belle risalgono a the River, 1980: disco che però poteva benissimo essere singolo. Dopo, qualche picco (The ghost Tom Joad), qualche lampo, il solito e grande feeling, un po’ di compagni di strada perduti lungo il cammino, grandi arene e amore incondizionato dei fan.
Ma arte vera, poca.
Non possiamo fargliene una colpa, per carità. Difficile a settant’anni essere credibili parlando ancora di amori palpitanti e di vita on the road. Tento allora di convincermi del contrario ascoltando a raffica un po’ di cose recenti. Poi pesco per caso Zero and Blind Terry e torno a darmi ragione da solo.
Ciononostante, auguri Bruce. Cento di questi giorni.