Le impressioni a caldo dalla fiera appena conclusasi (97mila presenze, 30.000 operatori esteri, 1.200 top buyer con +20% sul 2023) rivelano il nervosismo di un evento e di un settore che forse stanno rapidamente cambiando pelle.
Non è mai facile – ammesso che lo si possa ed abbia un senso farlo – trarre conclusioni al termine di una fiera per definizione variegata e trasversale come il Vinitaly. Ma è giusto esplicitare a caldo le impressioni, o meglio gli umori.
Sì perchè, se certe solenni considerazioni di fondo, oltre che abusate, sono anche un po’ oziose, molto di più si può capire dalla “pancia” della manifestazione e di chi la frequenta. Al netto delle spigolature più o meno divertenti delle quali ci siamo già occupati qui e qui.
La sensazione ricavata tra i padiglioni e parlando con decine tra colleghi, produttori e addetti ai lavori è che sia stato dunque un Vinitaly allegro e a volte frenetico, ma anche inquieto e guardingo.
Guardingo perchè da un lato i molti vuoti commerciali registrati qua e là, sebbene alla fine poco percepibili nel fragore fieristico, e dall’altro il recente flop del Prowein hanno per l’ennesima volta confermato che forse il modello espositivo è in crisi (e risente ovviamente, in un rapporto di causa-effetto, della crisi generale del mondo del vino), ma che il modello Vinitaly sembra comunque in possesso di una vitalità propria, tale da farlo risultare inaffondabile nonostante i tanti difetti cronici della manifestazione. I quali però, alla resa dei conti, sembrano essere pure le ragioni del suo successo. Possiamo chiamarlo istinto di sopravvivenza, o anche miracolosa capacità di mantenere – italianissimamente – un instabile equilibrio.
Inquieto perchè tra i corridoi una certa ansia, mista di timori e speranze, era comunque palpabile e l’atmosfera era quella di chi, sotto un cielo sereno e pieno di sole, sente tuttavia bubbolare lontano e vede affiorare all’orizzonte nubi minacciose: lì già piove, ma pioverà anche qui? E quando?
Al di là dei proclami, è evidente che i grossi del vino hanno sofferto e hanno legittimi motivi di preoccupazione. L’industria del vino, che non corrisponde affatto al vino industriale, osserva con inquietudine il convergere simultaneo di molti fattori di instabilità: mode e trend alimentari, mutamenti veri o presunti del clima, politiche comunitarie e sanitarie, gusti del consumatore, nuovi mercati e nuovi concorrenti, calo dei consumi e invecchiamento dei consumatori, difficoltà ad assecondare strategie e linguaggi di un comparto che non va verso il consumo di massa, ma è da questa trascinato verso il basso. Sul fronte opposto, l’euforia di chi scopre che la nicchia – concava o convessa, secondo il punto di vista del produttore e del consumatore – rappresenta un’ancora di salvezza preziosa quanto tuttavia precaria, perchè in grado di sopravvivere sul serio solo appoggiandosi a un sistema solido: se questo scricchiola troppo, anche i cornicioni cominciano a cadere.
Un’ultima nota la merita la mondanità, ossia l’espansione anche al Vinitaly del fenomeno dilagante ovunque in Italia: il vino come occasione di evento e perfino di intrattenimento puro. Se fino a pochissimi anni fa il pre e post fiera erano un’appendice, un corollario per addetti ai lavori o un prolungamento gaudente ma comunque faticoso del lavoro di marketing, oggi quel contorno pare essersi ritagliato uno spazio a sè e perfino una propria dignità funzionale e strategica. Il Vinitaly parallelo e mondano che si è preso la città rischia di fare presto ombra a quello principale? O piuttosto ne può divenire la longa manus?
Forse è stata anche questa prospettiva, sfuggente ma palpabile, ad aver reso quest’edizione 2024 allegramente inquieta e guardinga.