di URANO CUPISTI
1964: diciottenne, qualifica di sotto-mozzo in tasca, partii in aereo (nove scali) verso il Giappone per andare a prendere la carboniera, Deneb da condurre poi – via Pacifico, Panama e Atlantico – a Porto Marghera. Altri tempi? Sì. Altri viaggi? Anche. E ricordi indelebili, che vi racconto.

 

Anno 1964, avevo appena 18 quando partii verso Oriente per tornare da Occidente. Il mio primo giro del mondo vissuto da vero marinaio, l’undicesimo viaggio con mio padre. Ed era nato tutto per caso.
Arriva un telegramma della Società di Navigazione Sidermar di Genova.
Mio padre si trovava in avvicendamento, le ferie dei marittimi. Il testo del messaggio, però, diceva: ”Si presenti in sede l’8 agosto alle 10 per informazioni e incarico urgente”.
Quest’anno, bimbo (così mi chiamava lui, ndr) niente mari del Nord. Andiamo in Giappone a prendere una carboniera nuova di zecca, poi Norfolk, in Virginia, per il primo carico e quindi rientro a Porto Marghera. Te farai parte dell’equipaggio, ragazzo di coperta. Insomma un sotto-mozzo o, se preferisci, un apprendista marinaio”. A me della qualifica non importava ovviamente nulla. Finalmente non ero più un ospite, ma parte integrante della ciurma. Il cinquantaduesimo, un effettivo.
Non mi serviva il ‘libretto di mare’ necessario per navigare sulle navi italiane perché la Deneb, la nuova carboniera, batteva bandiera liberiana, quindi era “suolo” straniero e per lavorarci bastava il passaporto.
Ci ritrovammo all’aeroporto di Linate. C’erano anche due mozzi siciliani di quindici anni. Mancava invece il Capitano, che ci avrebbe raggiunto ad Amsterdam. Fu mio padre, il più in alto in grado, a comunicare il programma: raggiungere Amsterdam, poi proseguire per Tokio con scali ad Atene, Cairo, Dubai, Karachi, Bombay e Singapore. Qui stop di due giorni e proseguimento per Hong Kong. Quindi, finalmente, arrivo a Tokio. Cinquant’anni fa i voli diretti non c’erano. Un quadrimotore Costellation Lokheed della KLM ci portò Amsterdam. Un Super-Costellation Lokheed ci portò a Tokio. L’udito fu messo a dura prova dai motori ad elica, ma avevo lo sguardo perso nell’infinito e quell’inizio mi fece sopportare il lungo e faticoso trasferimento, pieno di scoperte.
La prima fu Singapore, dove il chiarore della notte era già allora uguale a quello del giorno. Una metropoli dove racconti e dialoghi s’incontravano. E dove poteva sembrare che i messaggi di luce fossero una voce narrante. Troppi i turisti già allora, tutti alla ricerca di danzatori folcloristici per scattare foto da mostrare agli amici. Poi in fila ad acquistare il balsamo di tigre per far credere di conoscere la medicina orientale. Trovarmi partecipe del nascente turismo di massa fu una vera esperienza.
Arrivammo a Tokio dopo lo scalo ad Hong Kong, con un atterraggio di notte in mezzo ai grattacieli affacciati sulla baia e il quadrimotore che si incuneava alla ricerca della pista. Brivido, suspense e applauso finale. Fu molto diverso al Narita, nella campagna a 100 km da Tokio. Ci vollero poi 2 ore e mezzo di bus per raggiungere Shimizu nella Prefettura di Shizuoka, sul mare, sede dei cantieri navali Miho. Mi accorsi che si era fatto subito sera nel percorrere le rotte verso oriente: eravamo andati avanti nel tempo di nove ore. Fantastico, sorprendente. Un’ebrezza.
La Deneb era attraccata al molo interno. Un gioiellino per quel tempo. Nera con qualche rifinitura in bianco, logo della compagnia sul fumaiolo, lunga circa 180 mt., ponte a poppa, grande bigo per carico e scarico. Il lavoro lì sarebbe durato 19 giorni, tutti trascorsi nel triangolo Tokio-Yokoama-Shimizu e dintorni, all’ombra dell’onnipresente Fuji.
Ne rammento bene gli straordinari panorami e le atmosfere cariche di energia.
Erano le 6 del mattino del terzo giorno a Shimizu: fu il giorno del Fujiama. Il sole era sorto ad est. I raggi si insinuavano tra gli alberi. A rendere lo spettacolo ancora più magico, la nebbiolina che scivolava leggera, sospinta dall’aria che si stava scaldando. Qua e là, piccoli templi scintoisti dove suoni di campanelle chiamavano alla preghiera. Villaggi che si susseguivano. E quello sempre all’orizzonte, maestoso, con il cono innevato. Ma si chiamava Fuji o Fujiyama? Il vero nome sarebbe Fuji-san, ma imparai che tutti i termini sono buoni per qualificarlo. Fujiyama e Fuji-san vanno usati senza dire montagna, perché yama e san significano proprio montagna. Circondato da cinque laghi: Kawaguchi, Yamanaka, Sai, Motosu e Shōji. La gola di Osawa, le cascate di Shiraito ed infine il grande fiume Kakita, dall’acqua cristallina. Ci fermammo nei pressi della città di Fujinomiya, nel tempio Fujisan Hongū Sengen Taisha, ad ascoltare le storie e leggende legate al Fuji e ai Santuari Asama.
A Tokio, invece, andavo con un treno veloce e puntualissimo. Come una formichina seguivo le indicazioni di una cartina fatta per gli americani. Ma a Tokio non ti perdevi mai, bastava avere in tasca l’indirizzo della Stazione Centrale (scritto in giapponese) da mostrare a qualsiasi passante o taxista e il problema era risolto.
Tokio era vibrante. Auto, autobus, furgoni, motorini sfrecciavano in una girandola infernale sfiorandosi senza mai urtarsi. Il palazzo reale con i suoi suntuosi giardini era il luogo per riprendere fiato. Il tempio Meiji Jingu il luogo tranquillo dove respirare la spiritualità giapponese. Ginza il quartiere del futuro, dov’era impossibile non acquistare qualche diavoleria. E l’ebrezza della monorotaia, quando in Italia ancora c’erano ancora i vagoni di III° classe con i sedili in legno.
Venne anche il momento del Teatro Kabuki, delle sale da the e delle immancabili Gheishe.
Il Kabukiza si trova nel centro di Ginza. Entrammo in sei: due marinai, due allievi, un terzo ufficiale di macchina e il sottoscritto. Dopo mezz’ora ero rimasto solo. Perché il kabuki è basato su gesti, figure, suoni e repentini cambi di scena dove la tensione emotiva diviene altissima. Ma allo stesso tempo è difficile da comprendere e, senza un po’ di preparazione, finisce per annoiare. La fuga dei miei amici ne fu la prova.
Li ritrovai tutti, ovviamente, di fronte ad una Okiya, la casa delle geishe nel quartiere di Shinbashi. Altro non era che un bordello dove prostitute in kimono ti offrivano tè e sake prima di dedicarsi al resto. Niente a che vedere con le intrattenitrici della tradizione, abili nella musica, il canto e la danza. Solo roba da marinai in licenza. E infatti così fu.
Intanto per la Deneb erano iniziate le prove in mare. I test finale avvenne puntuale al diciannovesimo giorno, come concordato.
Per me stava già per aprirsi la seconda parte del viaggio, quella transoceanica. Ma il Giappone mi aveva colpito per sempre. Ancora un po’ rurale eppure già tecnologico. Operoso. Al momento dell’imbarco capii perfettamente dove avrei lasciato una parte di me: tra il tempio di Meiji Jingu, il teatro kabuki e il Fuji-san.

(continua)