Anche al festival del giornalismo digitale di Prato c’è stato abuso di un inglese tecnocriptico, pure quando si poteva facilmente evitare. Il solito caso di colonialismo/provincialismo linguistico o un malizioso gioco di specchi per rendere più opachi certi concetti e ambiti della nostra professione?

 

Facciamo pure la tara e mettiamo sul piatto il gap generazionale che mi rende meno familiare che ad altri il tracimante uso di espressioni inglesi constatabile nella vita quotidiana (cosa di per sè, chiariamolo, comunque deteriore).
Se però leggo qualcosa tipo “Metered paywall, reverse paywall, soft paywall“, mi chiedo: “Che vuol dire?
E infatti me lo sono chiesto, sedendomi per seguire uno dei tanti seminari di Dig.it 2016, il festival del giornalismo digitale che si è appena concluso a Prato. Mi faccio del resto la stessa domanda tutti i giorni, imbattendomi negli oscurissimi anglicismi che costellano il web e soprattutto le espressioni tecniche che lo descrivono.
Dig.it è un’iniziativa consolidata e senza dubbio interessante, cui partecipo abitualmente. Alla quale tuttavia contesto (come gli organizzatori ben sanno), tre cose.
La prima è che nessuno mi ha ancora spiegato quale sia, supporto a parte, la differenza tra giornalismo cartaceo e giornalismo digitale.
La seconda è che si finisce sempre per accorgersi che tutta ‘sta digitalità serve e consiste nell’essere, direttamente o indirettamente, uno strumento di vendita, di tecniche acchiappaclic, insomma un insieme di metodi per implementare lecitissime attività imprenditoriali (blog, portali, testate on line) che però sono eventualmente di pertinenza degli editori e non dei giornalisti. Di coloro cioè che, l’informazione, la producono e non la vendono.
La terza, ed entro nello specifico del post, è che non mi capacito di che bisogno ci sia di usare sempre e solo il linguaggio anglo-formular-iniziatico per definire concetti semplicissimi, tipo “pubblicità su internet“, “reclame”, etc. riempiendosi la bocca di espressioni tanto tonitruanti quanto, a volte, ridicole.
Ciò che prescinde naturalmente dalla serietà delle circostanze del festival e dell’argomento di cui si tratta.
A causa di una messe di inutili termini inglesi usati per spiegare, o occultare, nozioni che dette in italiano suonerebbero assai meno sexy (vuoi mettere dire “influencer” invece di “persuasore occulto“, “brand” invece di marca, etc), il linguaggio digitale rischia infatti di diventare, per dirla col Manzoni, il latinorum del terzo millennio: insomma un idioma scarsamente comprensibile, usato ad hoc, perfetto per far ingoiare al popolo bue ciò che altrimenti ingoierebbe mal volentieri.
Soprattutto quando usando la lingua di Shakespeare si può attenuare, appannandone il senso, la negatività di come certe espressioni verrebbero percepite nella nostra lingua.
Qualcuno obietterà che, se ciò accade, la colpa non è della rete ma di chi la utilizza.
Io infatti non ho mai affermato il contrario.
Che però tra i principali destinatari di questa sorta di messaggio glottosubliminale sull’uso disinvolto dell’inglese web-iniziatico ci siano proprio i giornalisti, a me qualche sospetto lo solleva.
Soprattutto se, per quanto in idioma oxfordiano, impresto loro strumenti di lavoro e leve di reddito che sarebbero degli editori, non dei professionisti dell’informazione.