di FEDERICO FORMIGNANI
Il dialetto milanese conosce molti modi per chiamare il felino e lo ricorda in molti detti, anche pungenti. L’animale, del resto, era amato pure da Leonardo da Vinci, Mark Twain, Charles Baudelaire e Pablo Neruda.

 

L’amore dei milanesi per gli animali è di tradizione antica, anche se pochi sanno come venivano chiamati i mici in dialetto. Ci sarà modo di parlare in futuro anche del cane, l’amico dell’uomo per eccellenza. Ma oggi è di scena il gatto, per di più milanese.

Oltre al termine ufficiale di gatt, abbiamo anche mosc, el minàu, el gnàu, mìsc, manàn oltre al ridicolo legora de tècc (lepre dei tetti). Questi termini, grosso modo, li troviamo anche al femminile: gatta, manàna, moscia, moscianna. Per i piccoli esistono, naturalmente, graziosi diminutivi: gattin, minìn, mignin, eccetera.

I gatti, naturalmente, sono poi diversi tra loro. C’è il gatt d’angora, dal pelo folto e morbidissimo; il gatt de l’emma o de la Madonna – detto anche gatt sorian (soriano o persianino) – così chiamato perché nel pelo della fronte mostra una specie di emme maiuscola (M). Il gatt majnon è il gattomammone, mentre il gatt pezzàa (pezzato) è quello che ha il pelo a grandi macchie di diverso colore.

Così Giuseppe Banfi, compilatore di un “Vocabolario Milanese-Italiano per la Gioventù” (quella del 1852!) descrive le caratteristiche fisiche del gatto: “…fortemente carnivoro, unghie uncinate, arrovesciate e inguainate e perciò sempre conservantisi acutissime; membra agilissime, pupilla lineare di giorno, ovale o anche rotonda di notte e perciò capace di vedere al buio. Gnàula, miàgola, mugolisce, tornisce (fa fron-fron).”

Fronfronà, riferito ai gatti, è verbo molto usato dai poeti dialettali. Uno dei più grandi cantori meneghini (Domenico Balestrieri, 1714-1780) soffrì in maniera indicibile quando il suo gatto morì a causa di un volo dal tetto: compose per l’occasione un Lament che commosse l’intera città. Ne ricordò l’aspetto e le doti con parole semplici e affettuose: “El gh’aveva do orècc, cürt, suttil, guzz e gnervént, e duu oeucc ben berlusent, pussée luster che né un spècc; de color …giust color d’or, che bej oeucc per fa l’amor” (aveva due orecchie corte, sottili, aguzze e nervose e due occhi ben lucenti, più luminosi di uno specchio; di colore…proprio di color oro, che bei occhi per far l’amore).

Che il gatto se la cavi bene in amore è cosa risaputa; ne fanno fede i due detti: “innamoràa come on gàtt” (innamorato cotto, fradicio) e, riferito al gentil sesso: “vèss pèsg d’ona gatta soriana” (esser peggio d’una gatta soriana) vale a dire esser donna facile a innamorarsi.

Alcuni detti milanesi che hanno per protagonisti i gatti, infine, sono veramente spassosi e danno l’esatta misura dello spirito ambrosiano, acuto come pochi. Si dice “alèst come on gatt de marmor” (lesto, veloce, come un gatto di marmo) di chi proprio vivace non è. Si rimprovera qualcuno “de vorè insegnà a i gatt a rampegà” (voler insegnare ai gatti ad arrampicarsi) quando ci si sforza nel dare consigli (o formulare rilievi) a chi proprio non ne ha bisogno. Si raccomanda pazienza e prudenza nell’eseguire un compito, ricordando che “la gatta pressosa la fa i gattìn orb” (la gatta frettolosa fa i gattini ciechi). Vigila, controlla e consiglia come può tutto e tutti, l’abitante di Milano, ben conscio del fatto che ciascuno farà ciò che vuole una volta che avrà voltato l’occhio.

È cosa nota: “via la gatta, ballen i ratt” (via la gatta, i topi ballano).

Per non eccedere con i gatti in dialetto, si potrà terminare l’elegia di questo splendido animale con i pensieri sparsi di chi li ha conosciuti e amati. Deciso il parere di Leonardo da Vinci: “anche il più piccolo dei felini, il gatto, è un capolavoro”. Decisamente possessivo e poetico era Charles Baudelaire: “vieni sul mio cuore innamorato, mio bel gatto; trattieni gli artigli e lasciami sprofondare nei tuoi occhi belli, misti d’agata e metallo”. Pablo Neruda non è stato da meno: “dormi, dormi, gatto notturno con i tuoi riti di vescovo e i tuoi baffi di pietra: ordina tutti i nostri sogni”. Più concreto – ma significativo – il giudizio di Mark Twain: “se si potesse incrociare un uomo con un gatto, l’essere umano ne risulterebbe migliorato, ma il gatto peggiorato”. Lo scultore in legno americano Wesley Bates – parere di un esperto – ha sentenziato: “non c’è alcuna necessità di sculture, in una casa in cui vive un gatto”. Anche in Irlanda, l’isola verde dai mille colori, non sono insensibili al fascino dei gatti. Un antico proverbio recita infatti: “gli occhi di un gatto sono finestre che ci permettono di vedere dentro un altro mondo.” La conclusione può essere affidata alla poetessa americana Jean Burden: “un cane è prosa; un gatto è poema”.