Il percorso involutivo, anzi dissolutivo, del giornalismo italiano è quasi giunto al termine: redazioni all’osso, liquide e sempre più burocratiche, scrittura affidata sempre più a soggetti pagati poco o nulla, spesso nemmeno giornalisti e/o dilettanti di fatto.

 

Il 26 aprile del 2011 pubblicavo qui un post molto seguito che si intitolava “Giornalisti, blogger e l’economia della gratitudine“.

Lasciamo perdere i blogger, che hanno cessato di rappresentare un problema, e concentriamoci sul resto.

L’ipotesi era che il mondo dell’informazione stesse dividendosi in due: di qua chi, in cambio di visibilità, si accontentava appunto della “gratitudine” del committente e di là chi, rivendicando invece un riconoscimento della propria professionalità, covava ancora dall’esercizio dell’attività giornalistica pretese di reddito o, in subordine, di un compenso che non fosse solo simbolico.

Nel mezzo, redazioni scricchiolanti popolate di giornalisti garantiti solo fino a che la baracca sarebbe stata in piedi.

Il tempo è passato e il percorso involutivo è arrivato a compimento, giungendo alle porte della fase dissolutiva della professione, cioè quella che stiamo vivendo.

Le parti infatti, in un gioco solo apparentemente perverso, si sono invertite: si è arrivati al punto che spesso è il giornalista a sentirsi, o nel migliore dei casi a essere richiesto di sentirsi, riconoscente verso l’editore per il fatto che egli gli consenta di scrivere. Gratis o quasi, si capisce.

I motivi di una tale degenerazione sono molti, ma convergenti.

Innanzitutto la cronicità del problema: rimanendo irrisolto per un decennio, e dopo un altro decennio di palese incubazione, esso ha generato dei “nativi“. Ovvero giornalisti che, nati professionalmente quando la questione già esisteva ed era dilagante, sono cresciuti in una temperie in cui la patologia sembra uno stato normale e si comportano di conseguenza. Non si può certo farne una colpa a loro, ma il dato è inconfutabile.

Qualche notevole responsabilità in più ce l’hanno le istituzioni giornalistiche che – per miopia, calcolo o malizia – hanno consentito che la piaga diventasse purulenta e inguaribile: sia un OdG che, anzichè stringere le maglie e alzare l’asticella di fronte all’evidenza di una professione pletorica, ha sconsideratamente assecondato la deriva dilettantististica (il cosiddetto “giornalistificio“), sia un sindacato ora cieco di fronte alla realtà e ora troppo colluso e impegnato nei propri giochini di potere per accorgersi dei problemi reali e della propria perdita di rappresentanza.

Ne abbiamo parlato mille volte ed è inutile ripetersi.

Poi ci sono gli editori che, incapaci di allontanarsi dal modello adv-oriented (i ricavi me li dà la pubblicità, quindi a che serve sostenere le vendite attraverso la qualità del prodotto garantita dai contenuti?), da un decennio navigano a vista, marciando sugli stati di crisi e senza capire come gestire il fenomeno del web.

Il risultato è sotto gli occhi di tutti: la società sta imparando e spesso ha già imparato a fare a meno del giornalismo come fonte di informazione, affidandosi ad altri e ben più manipolabili interfaccia. Come fargliene una colpa, però, se in effetti l’informazione, dilettantizzata e ridotta ad hobby, o ben che vada a secondo lavoro, ha abdicato da sola al proprio ruolo professionale?

Il giornalismo italiano, o ciò che ne resta, annaspa insomma in balia dell’economia della gratuità.

Che, a pensarci bene, è come dire che la sanità pubblica è affidata alle associazioni del volontariato: benemerite quanto vogliamo, ma certamente non in grado di reggere da sole un sistema di cui esse, per vocazione, sono supporto e non struttura.

Resta da chiedersi se questo lento ma inesorabile declino sia il frutto naturale di antichi quanto cronici errori, o se vi sia stata una regia.

Personalmente non credo nè all’una, nè all’altra ipotesi, ma alla concomitanza delle due cose, con occasionali quanto prolungate furberie, sinecure e opportunismi di bottega che hanno fatto il resto.

Buon Natale.