All’assaggio di primavera (in calce i miei migliori), i Viticoltori di Radda hanno affiancato tre Sangiovese della California e un seminario sulle differenze tra il vitigno coltivato in Toscana e nel Golden State. I risultati? Interessanti. Ma mai come le storie che ci sono dietro.

 

E’ successo tutto ieri alla Casa del Chianti Classico a Radda, durante la serata di degustazione e approfondimento organizzata dai Vignaioli di Radda (allegro gruppo di ventitre viticoltori che, ci tengono a specificarlo, sono allergici alla burocrazia e quindi formalmente non sono ancora un’associazione vera e propria, se mai lo saranno!) alla vigilia di Radda nel Bicchiere (qui), di scena oggi e domani.
Sul palcoscenico, oltre ai banchi di assaggio (con alcune eccellenze di cui riferiremo più sotto), alla questione della istituende sottozone del Gallo Nero e alla notizia che, nel comprensorio, non solo pascolano allegramente, come in tutta la Toscana, un numero mostruoso di cinghiali e caprioli (se ne parlerà martedì 29/5 pomeriggio all’auditorium di Chiantibanca a San Casciano, appuntamento da non perdere per chi ha a cuore il problema), ma pure cervi olimpionici capaci di saltare i 2 metri delle recinzioni, un interessante seminario sulle differenze e le analogie tra il Sangiovese italiano e quello californiano.
Sì, perchè il Sanguis Iovi non è solo il vitigno italiano a bacca rossa più coltivato della nostra regione, il che è abbastanza ovvio, in Italia e nel mondo (tanto da poter quasi essere definito “neointernazionale“), ma pure in California, con oltre 1000 ettari di superficie vitata e oltre 100 cantine a vinificarlo, diffuse soprattutto nella parte più settentrionale del Golden State.
A illustrare lo stato dell’arte la giovane enologa, nonchè ricercatrice alle Università di Firenze e di Davis, Valentina Canuti, che ha presentato i primi risultati dell’indagine da lei svolta nel 2017 su 62 campioni di vino da Sangiovese dell’annata 2016 (32 californiani, 28 toscani e 2 umbri) nel tentativo di individuare elementi di tipicità e di autenticazione chimica tra le due provenienze.
Non è questa la sede per addentrarsi in dettagli tecnico-analitici, che necessiterebbero di schede di cui non disponiamo. E aggiungiamo che le conclusioni, come la stessa Canuti ha ammesso, sono ancora piuttosto grossolane visto che la ricerca è appena iniziata (ad esempio non si è tenuto conto dei cloni, pur individuati, dell’età dei vigneti, etc da cui provenivano i campioni), che il reperimento di dati e vini non è semplice e che non è facile neppure far capire agli americani il concetto di “tipicità“.
Diciamo allora che, tra le notizie emerse, le più importanti sono due: da un lato, il lavoro ha consentito la messa a punto di un modello che, partendo dai dati analitici dei vini californiani, consente la sovrapposizione ad essi dei dati dei vini italiani, rendendo così possibile anche in futuro un confronto ancora più puntuale sui diversi elementi studiati e che, dall’altro, tale confronto ha evidenziato come, sotto l’aspetto chimico, le differenze tra il Sangiovese toscano e californiano siano abbastanza modeste. Se poi è in qualche modo individuabile un aroma varietale californiano riconoscibile, gli indici cromatici evidenziano invece che i vini nostrani tendono ad avere un tono di colore leggermente più intenso.

In attesa degli sviluppi scientifici, sono state però le implicazioni culturali che mi hanno incuriosito e conquistato.

La storia, cioè, non solo di come e quando il Sangiovese sia arrivato in California, ma anche di come e perchè, più di recente, esso si sia diffuso geograficamente e tipologicamente è infatti tutta da scrivere e da studiare. Il pensiero va a quelle barbatelle sopravvissute all’avventuroso viaggio in piroscafo, mantenute in vita all’interno di banali patate, e portate nel Nuovo Mondo tra la fine dell’800 e i primi del ‘900, negli anni dell’emigrazione diretta dalla Toscana al più orientale degli Stati Uniti. Va anche all’economia e agli effetti sociali che quelle prime messe a dimora implicarono nell’espansione e nella creazione della comunità toscoitaliana nella regione. E va pure ai decenni più recenti, quando sono stati gli (italo-)americani a tornare nel bel Paese per studiare il nostro vino, il Sangiovese, il Chianti Classico, il Brunello, il Nobile per capire come emularne i risultati.

L’incrocio tra le risultanze tecnico-scientifiche della ricerca della Canuti e le evidenze antropologiche che essa, indirettamente, potrebbe far emergere, hanno il potenziale per dare spunto a nuove pagine di storia troppo recente per essere già stata indagata, ma remota quanto basta a necessitare di accurate indagini, prima che indizi e memorie vadano perduti per sempre. Basti pensare che Seghesio Winery ha un vigneto di Sangiovese risalente a primi del ‘900 e che la vigna si chiama “Chianti Station“, perchè sorge in prossimità di dov’era lo scalo ferroviario che serviva al carico dei vini destinati alla città.

Rimuginavo su tutte queste cose mentre assaggiavo i 69 campioni raddesi (tre per azienda) e i 3 Sangiovese californiani.

Ho trovato i secondi (tutti, va detto, di fascia alta, con un prezzo in vendita diretta tra i 40 e i 50 dollari a bottiglia) assai migliori del previsto e con una loro sottile ma percepibile coerenza: molto varietale, fruttato e suadente al naso, caldo e moderno, ma non spiacevole in bocca il Vino Noceto 2015 (area a ovest di Sacramento, 450 slm), discreto anche il Venom di Seghesio (tra Napa e Sonoma, 180 slm), gentile e floreale al naso, più coriaceo in bocca, mentre decisamente marcato dal legno e di impronta decisamente internazionale, ma senza caricature, il Benessere di Benessere Vineyards (Napa, 85 slm).

Quanto ai primi, ecco gli assaggi che più ho gradito:

Montemaggio Chianti Classico Riserva 2011: un vino biologico elegantissimo, con un naso gentile e una bocca ricca ma non invadente.

Poggerino Nuovo Chianti Classico 2015: nasce solo da vasche di cemento e Nomblot, con frutto ampio e ricco e pure in bocca è armonico, gradevole, fine.

Pruneto Chianti Classico Riserva 2011: l’età gli dà profumi cangianti e screziati, in bocca mantiene un bel corpo diritto.

Brancaia Chianti Classico 2016: solo acciaio e cemento, grande freschezza e godibilità sia al naso che in bocca.

Castello di Monterinaldi Chianti Classico 2015: 90% Sangiovese e 10% Canaiolo, con un naso sontuoso e generosissimo al palato, è l’assaggio migliore del lotto.

Borgo la Stella Chianti Classico Riserva 2014: l’annata si sente ma è un pregio, il vino è elegante, il naso gentile, la bocca godibile con un lieve finale amarognolo.

Il Guercio Toscana Igt 2016: solo acciaio per questo 100% Sangiovese nato a 700 metri di quota, con un naso freschissimo, un palato etereo  e lungo.

Istine Levigne Chianti Classico Riserva 2014: un naso bellissimo e coerente, bocca pulita, netta e gratificante.

Per chi non l’avesse capito, mi sono divertito!