Comincio dalle conclusioni. Per evitare un lungo pastone ho diviso infatti il mio commento all’ultimo appuntamento, quello dedicato ai giornalisti, degli Stati Generali dell’Editoria chiusisi ieri a Roma, in quattro pezzi divisi per argomento. Questo è il primo: i capponi di Renzo.

 

Non ho particolari motivi di simpatia nè di affinità, politica o d’altro, col sottosegretario con delega all’informazione Vito Crimi. Ma ieri mattina, quando alle 10 precise mi sono presentato nella nuova, vasta e ariosa aula dei gruppi parlamentari a Montecitorio per la sessione finale, la quinta, degli Stati Generali dell’Editoria, ho condiviso con lui un primo sentimento di delusione: anch’io mi aspettavo una fitta rappresentanza di giornalisti, con code e forse gomitate per entrare, mentre invece eravamo a malapena una trentina di gatti dispersi in un emiciclo da cento, squallidamente semivuoto.

Guardandomi intorno, ho visto un novanta per cento di estranei, un altro nove per cento di volti a me noti solo via media o Fb e non più di un uno per cento di colleghi che conoscevo personalmente. Anche peggio è stato scoprire che, salvo errori, nessuno, tranne me, risultava presente a titolo personale, cioè per un interesse proprio, individuale, nel senso di legittimo desiderio e opportunità di assistere direttamente a un’assise in cui si parlava del futuro della tua professione e quindi, in fondo, della tua vita. Cosa che mi ha oltremodo sconcertato.

E a un certo punto mi sono sentito anche un po’ coglione a essermi sobbarcato una giornata di viaggio e cento euro di spesa in una Roma canicolare e paralizzata dall’arrivo di Putin: forse l’appuntamento – mi sono chiesto sedendomi – non valeva lo sforzo e io sono il solo a non averlo capito prima?

Un secondo sentimento di delusione misto a noia l’ho provato ascoltando le relazioni di Daniele Nalbone, responsabile web di Paese Sera, e di Alberto Puliafito, direttore di “Slow News”: non perchè dicessero cose sbagliate, per carità, ma abbastanza ovvie e pure vagamente ammantate dallo spiacevole tono didascalico di chi il giornalismo l’ha inventato lui. Ad acuire il mio fastidio, l’abuso da parte di tutti i relatori del pallosissimo argomento del “modello di business” in un contesto in cui, almeno secondo me, si doveva parlare molto più di professione, cioè di giornalisti e di giornalismo, che non del business che la sostiene.

Poi la parola è passata agli oltre venti colleghi che avevano chiesto di intervenire (visto il numero, ho ritenuto saggio astenermi) e qui è venuta la parte peggiore perchè, come acutamente ha riferito nel suo resoconto anche Nadja Bartolucci su Primaonline (qui), è sembrato più che altro un” raduno delle opposizioni interne dell’Fnsi”, o una sorta di resa dei conti tra avversari di corrente, che un dibattito o un’esposizione di argomenti.

Ho così avuto la sorprendente conferma che erano assenti (per una scelta polemico-politica secondo me assai discutibile, visto l’evento e i temi sul tappeto: per comprendere la surrealtà della vicenda, leggere qui le motivazioni espresse dal segretario del sindacato, Raffaele Lorusso) i vertici sia dell’Odg che dell’Fnsi.

Possibile? Sì, possibile.

A dimostrazione di quanto la categoria, da un lato talmente assorta nella propria, inconsapevole ma pertinace, cupio dissolvi, e dall’altro così ciecamente certa di una sua capacità di sopravvivenza garantita da decenni di impunito immobilismo, pensi di potersi permettere di snobbare un appuntamento che, anche a prescindere dall’eventuale strumentalità da parte di chi l’ha fissato – il quale è sempre e comunque un sottosegretario con delega all’informazione, quindi in sostanza il Governo, ovvero un interlocutore naturale – non poteva nè doveva essere disertato. E che anzi avrebbe dovuto fungere da grancassa di rivendicazioni e di atti difensivi contro gli attacchi veri o presunti provenienti da qualsiasi parte, a cominciare dalla politica.

Invece, nisba: ad esclusione di alcuni interventi di indubbio spessore per capacità penetrativa, ampiezza di prospettiva e coraggio di andare fuori dal coro (cito tra tutti quelli di Pierangelo Maurizio e Massimo Alberizzi), si sono ascoltate per la maggior parte geremiadi, accuse incrociate, rivendicazioni fuori dal tempo, difese corporative.

Nè si può farne gran colpa agli intervenuti perchè, ripeto, ancora peggiore era in quella sede la mancanza della società civile giornalistica, la cosiddetta base, insomma tutti noi che, se ci accontentiamo di delegare in bianco l’esposizione delle nostre idee e delle nostre esigenze (ammesso di averne, cosa di cui ormai sempre di più dubito) a chi non sa esporle,e spesso neppure le conosce e di conoscerle a volte gli importa pure il giusto, poi non bisogna troppo recriminare su quello che succede.

Così, alla fine, anzichè i giornalisti, i sassolini dalle scarpe se li è tolti Vito Crimi, che senza girarci troppo intorno non ha avuto difficoltà a esprimere la sua delusione per la scarsa affluenza e l’amarezza per la ristrettezza di vedute dimostrata da una categoria impegnata, anche in quell’occasione, a difendere i propri incancreniti orticelli. “Prendo atto”

E mi è pure toccato dargli ragione.

Dimenticavo: chi avesse tempo, voglia e masochismo di rivedersi tutte le 4 ore e 41′ di dibattito, può goderselo qui e verificare se ho detto fregnacce.

(1/continua)