La professione si sta riducendo, noi complici, a una compagnia di giro in perenne vacanza: compensi zero ma spese “coperte” dagli sponsor in cambio della rinuncia all’autonomia e all’indipendenza.

 

Alcuni anni fa interruppi il rapporto coll’importante quotidiano con cui lavoravo da un quarto di secolo.

Accadde quando, dopo l’ennesimo ribasso dei compensi e l’azzeramento dei rimborsi spese, ebbero pure il coraggio di dirmi: “D’ora in avanti segui quello che avviene e, se succede qualcosa di interessante, segnalacelo. Poi vediamo“. Una frase breve, ma irta di copiosi sottintesi: ci vai gratis e ci dai le notizie gratis (a noi e non ad altri ovviamente), poi decidiamo sempre noi se fartele scrivere e a quale (infimo) prezzo.
Era la consacrazione dell’hobbismo elevato a sistema: pretendo da te prestazioni da professionista, ma ti tratto da dilettante, visto che tu per primo accetti (io no, però!) di essere trattato e di comportarti da tale.

Da allora le cose sono talmente degenerate e il fenomeno si è talmente allargato che appunto l’intera filiera editoriale passa ormai la metà del tempo a cercare di scaricare i costi (spostamenti, vitto, alloggio, etc) e talvolta perfino i ricavi su soggetti diversi da quello che sarebbe il naturale pagatore dei medesimi, cioè l’editore committente.

Un’opportunità sulla quale, come dal loro punto di vista è giusto e anche comprensibile, i teorici antagonisti della stampa – ossia l’universo mondo, compresi gli inserzionisti espliciti ed occulti – si sono buttati a pesce: “Le spese? Le  paghiamo noi!“. In cambio di una contropartita, si capisce. Che può andare dalla marchetta più smaccata a una sfumata e omissiva compiacenza, secondo le circostanze, fino all’ingresso in qualche agognatissimo “cerchio magico“.

Il tutto passando con disinvoltura sulla dignità dei giornalisti.

Ai quali, diciamola tutta, spesso della dignità non frega nulla e che accondiscendono volentieri a qualsiasi pressione pur di farsi libere uscite a sbafo fingendo di lavorare. Ossia firmando articoli, visto che i compensi sono discesi in ogni settore al virtuale (eufemismo).

L’effetto è che (con le dovute eccezioni, si capisce) i giornali pubblicano quasi solo ciò che nasce “pagato”, ossia ciò che, per loro, non ha costi di produzione: sia perchè questi sono coperti da terzi, sia perchè i contenuti sono compensati in modo ridicolo, quando non ottenuti gratis.

I più organizzati hanno compiuto perfino la chiusura del cerchio (magico, appunto): si servono di pseudogiornalisti-veroprocacciatori di pubblicità, che agiscono in splendido conflitto di interessi, lavorando per ambo le sponde, come mediatori, nel fragoroso silenzio collettivo.

Ciò ha comportato la nascita di un sistema consolidato di compagnie di giro, delle quali più o meno tutti (compreso chi scrive, sia chiaro) finiscono per essere almeno indirettamente tributari, che vivono di transumanze. In cui il cronista o presunto tale – al caldo di mailing list applicate in blocco o ad personam – galleggia, o sguazza, senza cacciare un soldo. E viene trasportato qua e là dove allo sponsor interessa.

Dalla prospettiva di chi paga, come detto, è tutto lecito e logicamente ineccepibile. Quindi non mi sento di criticarlo.

Dalla prospettiva di chi scrive e di chi pubblica, un po’ meno. Anzi, per niente.

Ma siccome, alla fine, il giochino conviene quasi a tutti (compreso il lettore, che sembra credere sempre a ciò che legge e, perfino, più puzza di marchetta e più ci crede), nessuno fiata.

In questo quadro, naturalmente, chi osa eccepire è rare volte apprezzato per l’onestà intellettuale e quasi sempre bollato invece come rompicoglioni, quindi a rischio di espulsione dal gregge.

Insomma, siamo sempre più nel gorgo e sempre più muti. Senza accorgercene, forse abbiamo già toccato il fondo e lo abbiamo oltrepassato.

Quindi siamo morti e autosepolti, ma neppure lo sappiamo.