Sempre più spesso i giornalisti veri e finti, per accettare un invito, chiedono un “gettone”. Che non è un rimborso spese, bensì il prezzo della comparsata. Chi subisce il sistema si lamenta, ma accettandolo si fa coartefice di una deriva che manda in tilt l’informazione.
Ai tempi del giornalismo normale, se c’era un evento (come si dice oggi) da “coprire“, il giornale prendeva un suo inviato, lo mandava sul posto, gli chiedeva di scrivere un pezzo – o anche nulla, se poi la notizia mancava – lo pagava e gli rimborsava le spese sostenute per la trasferta.
Il giornalista veniva insomma remunerato con lo stipendio, se era un dipendente, o con una parcella, se era un libero professionista. Se era stato il professionista a proporre l’articolo al giornale, il primo si accollava le spese, ricaricandole poi sulla parcella concordata, oppure se le faceva rimborsare dall’editore.
Col moltiplicarsi degli “eventi” e con le sempre più elevate esigenze di enti, imprese e istituzioni di “comunicare“, però, si è presto verificato un ingorgo. Da qui la concorrenza tra gli organizzatori per accaparrarsi, a colpi di gadget e benefit, la presenza dei giornalisti.
Già questa era, in termini di deontologia pura, una deriva un po’ bacata. Ma ancora sostenibile, se e fino a quando i giornalisti avevano la professionalità e il reddito per essere insensibili alle lusinghe degli anfitrioni.
E’ dopo che invece il giocattolo ha cominciato a rompersi.
Da un lato, giornalisti sempre meno garantiti e sempre meno stipendiati, con un mondo dell’informazione sovrappopolato per effetto del giornalistificio e pieno di freelance spaesati in costante ricerca del modo di far quadrare i conti. Dall’altro, una controparte sempre più bisognosa di visibilità e pronta ad alzare la soglia delle sirene pur di trovare spazio sui media. Risultato: i rimborsi delle spese (vitto, alloggio, viaggio, etc) hanno cominciato ad accollarseli direttamente gli organizzatori degli eventi, contribuendo così ad alimentare involontariamente anche una cultura dello scrocco che, in certe fasce della professione giornalistica, era già stata resa viva e più agile dalla crescita pletorica della categoria.
Sotto un punto di vista logico, il discorso già così qualche notevole piega la cominciava a fare, ma ancora filava: se io, libero professionista, vengo inviato da un giornale, sarà il giornale a incassare il rimborso delle spese che io, per svolgere l’incarico (poi remunerato dall’editore), ho anticipato per lui; se invece la committenza non c’è io, sempre come libero professionista, devo aver ben presente che la mia trasferta potrebbe essere a vuoto e comportare quindi spese non recuperabili. Da qui la sempre più frequente offerta, da parte di chi mi invita, di rimborsarmele lui pur di avermi presente.
Il secondo passo verso il black out del sistema si era così compiuto, ma ancora non eravamo alla fine.
E’ col terzo step che si verifica il cortocircuito, frutto della combinazione malefica tra la moltiplicazione folle (e quindi anche sempre meno produttiva di risultati) di “eventi” da notiziare, la moltiplicazione di giornalisti o sedicenti tali in cerca di spiccioli per campare e la moltiplicazione dei “media” o presunti tali creati dal web, quasi sempre svincolati da qualunque obbligo etico: testate on line, siti di autopubblicazione, blog, portali di varia reclame e giornali veri che però usano giornalisti finti (senza pagarli).
Ciò che era diventato inevitabile, così, si è verificato: il “giornalista” (talvolta il giornalista vero e quasi sempre quello finto, il blogger, il comunicatore, lo spammatore, l’account pubblicitario mascherato da pubblicista, l’influencer, il web marketing manager, il tartinaro, tutti più o meno colpevolmente inseriti nelle mailing list di uffici stampa e enti) prima chiede, senza che nemmeno gli venga offerto e di frequente purtroppo ottenendolo, il “rimborso spese”. E poi passa direttamente alla richiesta del “contributo spese“.
La differenza non è solo una sfumatura dialettica, ma una questione sostanziale: il “contributo” equivale infatti alle spese più a un qualcosa per il “disturbo“. In pratica è un compenso. Anzi è il prezzo dell’acquisto dell'”eventualità” di un articolo giornalistico più o meno compiacente. Siamo arrivati ai futures dell’informazione marchettara.
Traduzione brutale: chiedo a chi mi invita di pagarmi per partecipare al suo evento, a prescindere da ogni aspetto o interesse giornalistico reale del medesimo.
Insomma mi chiami come giornalista, ma in realtà vengo a fare il testimonial.
Il grottesco è che non solo la legge professionale vieterebbe ai giornalisti di fare da testimonial, ma che nel 99% dei casi chi chiede il “contributo” non è nessuno, insomma non ha il peso, la notorietà, l’influenza per orientare il pubblico come i testimonial veri.
Del resto, proviamo a rovesciare i punti di vista: se qualcuno ha soldi da spendere per organizzare eventi a scopo promozionale e quindi investe nell’operazione fior di quattrini, perchè non dovrebbe destinarne un po’ a chi gli fa la cortesia di partecipare, regalandogli il suo tempo e rendendo l’evento affollato?
Ed eccoci all’ultimo passo della degenerazione.
I giornalisti – nel senso di quello che fanno il proprio mestiere – sono quasi spariti, i sedicenti o quelli che non sbarcano il lunario imperversano questuando “contributi”, mentre enti, pr, uffici stampa sono stufi di sentirsi chiedere soldi come in una sorta di ricatto (e i soldi forse li hanno pure finiti), ma sono stati i primi ad aver inventato, alimentato e istituzionalizzato questa deriva mercantile.
Detto ciò, mi torna in mente quanto scrivevo a tale riguardo qui, quasi sei anni fa.
E sospiro.