di URANO CUPISTI

Cina e Pakistan lo rivendicano: il passo carrozzabile più alto del mondo, i gompa, i monaci, il cielo a portata di mano, il K2 sullo sfondo. Ci sono luoghi che scegli e luoghi che ti scelgono. Il Ladakh aveva scelto me e mia figlia. Dovetti andarci da solo.

 

Esistono paesi che scelgono te e non tu loro. E’ come se conoscessero le tue capacità di adeguamento e di superamento delle difficoltà per raggiungerli. Me ne sono convinto dopo tanti anni a cavallo del mondo.

E tra quelli c’è sicuramente c’è il Ladakh, la regione più settentrionale dell’India, dove “tocchi il cielo con il dito”. Una regione che, quando ti è entrata dentro, non ti lascia più.

Posta ai confini pakistani e cinesi, in aree travagliate da continue dispute territoriali, è divenuta terra di rifugiati tibetani in fuga dal loro paese. Compreso il Dalai Lama. Racchiusa tra le imponenti catene montuose dell’Himalaya e del Karakorum, la regione si trova nello stato federato di Jammu and Kashmir, con un territorio desertico di alta montagna, con qualche oasi verde come il capoluogo Leh, che conta circa 10.000 abitanti. L’altitudine media è sui 4.000 metri e il clima oscilla tra il gelido ed il fresco per tutto l’anno.

Era un viaggio che avevo preparato nei dettagli insieme a mia figlia Ilaria, entusiasta all’idea di visitare la valle di Nubra, considerata da lei l’ultimo Shangri-La, il luogo immaginario descritto da James Hilton nel suo celebre romanzo del 1933, “Orizzonte perduto”.

Invece dovetti partire da solo, con la promessa di portarle un fiore da quella valle, il fiore dello Shangri-la. Divenuto poi il titolo di una mia favola a lei dedicata. Era l’agosto del 2005.

Fu un viaggio intenso, dal doppio significato. Quello più prevedibile della scoperta, dell’avventura, dell’esotico e quello meno ovvio, di una ricerca spirituale come risposta ai tanti perché della vita.

Il Ladakh non è del resto una meta di viaggio convenzionale, non è un luogo di vacanza per i semplici amanti della montagna e nemmeno per gli appassionati di trekking . E’ viceversa una meta difficile, remota, mistica. Non adatta a tutti.

Arrivai a Leh, a 3522 metri slm, proveniente da New Dheli. Nell’hotel scelto nel centro della cittadina (scelto perché c’era l’unico telefono collegato con la capitale indiana e quindi con il resto del mondo), trovai un gruppetto di sei piemontesi e aggregarmi a loro fu semplice. I programmi coincidevano, i giorni di permanenza pure. Fu così che iniziò la comune avventura.

Leh  presentò subito il suo biglietto da visita. Qualche vacca sacra in mezzo alla strada, qualche tempietto indù, negozietti gestiti dai pakistani di fede musulmana, una chiesa protestante bianca sulla collina a dominare il tutto. Non c’era altro da vedere a Leh. La permanenza era obbligatoria solo per acclimatarsi. Nei giorni successivi si arriverà ad altitudini quasi doppie e di conseguenza c’era bisogno di adattarsi fisicamente.

Il programma prevedeva  sette giorni ad ovest di Leh, verso il Pakistan, altri sette a est verso il Tibet e ulteriori sette a nord nella valle Nubra, nello Shangri-la di Ilaria.

Spituk fu la nostra prima tappa ad oves,t per prendere familiarità con i gompa, i tempi buddisti. Quello del piccolo villaggio, appena fuori Leh, lo raggiungemmo con una Uaz militare di fabbricazione sovietica adattissima a far scendere i calcoli renali a coloro che eventualmente ne soffrono. Basterebbero un paio d’ore e non sarebb più necessario bere litri d’acqua per evitare la calcolosi.

Arrivammo al gompa dopo aver percorso una strada lungo dei bellissimi campi irrigati ed essere saliti su una ripida collinetta. Essendo il primo degli innumerevoli visitati poi, ci colpì in modo particolare. Un magnifico cortile con ragazzini chiassosi a scuola di buddismo, tutti vestiti di rosso, appartenenti all’ordine dei Gelug-Pa, la sala della preghiera con la statua del fondatore dell’ordine, una collezione bellissima di thangka, stendardi buddisti magnificamente dipinti a mano e maschere terrificanti variopinte. Ed infine, nella parte più alta del gompa, un latho, un santuario degli spiriti.

Likir la raggiungemmo dopo 50 km di autostrada (si fa per dire) verso il Pakistan due posti di blocco militari. Controlli dei passaporti e compilazione di una specie di autocertificazione dove riportare il perché e il percome ci trovavamo da quelle parti. Timbri, contro timbri e via.

Impressionante il gompa di Likir, con quella statua dorata alta 23 metri del Buddha Maitreya (il futuro) seduto sul tetto del monastero. Ci hanno raccontato che l’opera era stata completata nel 1999.

A circa 15 km da Likir trovammo Alchi. Si è presentata con il suo complesso di monasteri pieni di pitture straordinarie. “Un gioiello di colori e forme talmente bello che il normale stato di affanno a quest’alta quota diventa un profondo sussulto, recita in proposito una descrizione ad esso dedicata. In effetti e ci trovavamo a quota 3.100 metri s.l.m.

Stanchi e perfino demoliti dalla comodità della Uaz raggiungemmo l’unica guest house esistente sull’autostrada. La mia stanza era dotata di bagno e perciò considerata deluxe. Bagno per modo di dire, naturalmente: tre mura e un buco.

A Leh ci avevano parlato, sì, delle condizioni spartane delle guest house della zona, ma non pensavamo così spartane. Avrete capito che nella latrina mancava una parete: era, solo dopo compresi, per favorire il ricambio d’aria.  Nell’esercizio delle funzioni serali e mattutine, comunque, tutto era ripagato dalla vista dell’Indo, dei campi coltivati e da una temperatura vicina allo zero.

Lamayuro e Ulleytokpo furono le mete raggiunte nei giorni seguenti, luoghi dove la presenza dell’uomo è ridotta al minimo e dà vita a un’atmosfera sospesa e magica, a un paesaggio lunare dove i monasteri sembrano quasio sospesi tra cielo e terra. A Ulleytokpo mi parve di tornare adolescente, quando partecipavo ai campi dei boy scout.

Il ritorno a Leh fu massacrante, senza soste. Una volta rientrato, dormii un giorno intero. Sempre malconcio, con le ossa rotte per via della malefica Uaz, mi aggregai nuovamente ai piemontesi per andare alla scoperta della zona kimalayana, verso oriente. Prima tappa il gompa di Hemis, dove era prevista un’edizione straordinaria del Festival per commemorare la nascita di Guru Padmasambhava, patrono del Tibet e fondatore del buddhismo tantrico in Tibet. Nella grande corte furono riprodotte danze, rituali e danze mistiche collettive. Non mancarono simulazioni di combattimenti fra spiriti benigni e maligni, dove monaci vestiti con abiti e maschere cerimoniali rievocarono antiche credenze accompagnati da musica, trombe, tamburi e gong.

Ma era il Lago Tso Moriri la meta più importante da raggiungere. Ormai presenti in Ladakh da oltre dieci giorni, eravamo “saturi” di gompa, danze, tromboni e afrore di burro di yak. Cercavamo colori, visioni e sensazioni diverse, il contatto con il cielo e il lago Tso Moriri era in grado di soddisfarci.

Arrivammo a Korzock, un paesino di circa 500 anime, per lo più anziani e donne intente a tessere tessuti da scambiare (vero e proprio baratto) con i carovanieri che nel periodo estivo transitano da quelle parti portando un po’ di modernità. Recipienti, pentolame, scarpe americane, magliette della Coca-cola e dei calciatori più famosi. Ricorderò per sempre quel bimbo col viso cotto dal sole e indosso una maglietta della Juventus con impresso il 10 e il nome di Del Piero. Gioia non solo mia ma anche dei miei compagni di viaggio piemontesi.

Il Lago Tso Moriri è un lago chiuso, alimentato solo dalle nevicate invernali che, lì, si protraggono per oltre otto mesi l’anno. L’evaporazione estiva lo rende salino, praticamente privo di vita. Tutt’intorno prospera una fauna che, minacciata dalla presenza del leopardo delle nevi, non riuscimmo ad ammirare. Incontrammo però pecore tibetane, marmotte,e yak  che si godevano il tepore delle luminose giornate d’agosto.

Sulla sponda del lago sorge una delle residenze, invero molto sobrie, del Dalai Lama che ogni tanto viene a passare alcuni giorni in meditazione. Ma il suo vessillo non garriva al vento, segno che non era presente.

Pernottare in tenda a 4.522 metri s.l.m. mette a dura prova qualsiasi persona. Poi se si alza il vento, ancor di più. La mia muta? Pantaloni termici, doppi calzettoni di lana, camicia di lana e pile. Così vestito dentro il sacco a pelo con tanto di borsa d’acqua calda ai piedi e in testa il passamontagna. Il problema era andare in bagno. Una buca alla militare coperta da una tenda. Che momenti, da brividi.

Era stato preventivato e sul posto deciso: “Saliremo sul Lungser Kangri a quota 6.666 e scenderemo a Skyurchu, quota 4.850, dove troveremo la nostra Uaz ad attenderci“. Nient’altro che un trekking di tre giorni con salita alla vetta su di un sentiero. Serviva solo fiato, niente di più perché già acclimatati.

Fu così ed è stata un’esperienza incredibile. L’incontro con i nomadi sui passi, con le carovane di yak e asini selvatici kiang. L’attesa della giornata perfetta e via. In vetta l’urlo del vento e la magia di aver toccato il cielo con un dito. Al ritorno vuoi non visitare un gompa, accendere la candelina e ringraziare tutte le divinità possibili per averci “supportato” nell’impresa?

Rientro a Leh per organizzare l’ultima parte del viaggio, la valle Nubra attraverso il passo carrozzabile più alto al mondo: il Khardun-La posto a 5.602 metri slm. La strada, in parte asfaltata, è una successione infinita di tornanti. Diversi posti di blocco ricordano ai viandanti che si tratta pur sempre di una strada militare strategica. Arrivati al passo, se pur agosto, quella tazza di tè aromatizzato, bevuta nel ristoro allestito dentro un container, fu quanto mai apprezzata da tutti. Mi colpì un tempietto attorniato dalle bandierine di preghiera dove all’interno c’erano immagini anche di altre religioni. La cattolica era rappresentata da un“sacro cuore”.

Di fronte a noi, in lontananza, la cima del K2, nome che sta per Karakorum 2, la seconda cima più alta al mondo e sotto, ai nostri piedi, la Valle Numbra, lo Shangri-La di Ilaria.

Furono alcuni giorni di distacco da tutto. Una valle verde, rigogliosa, con frutteti (tante albicocche) dove il tempo è scandito dalle preghiere e canti dei monaci dei vari monasteri presenti. Nel campo tendato dove alloggiavamo ci davano un po’ di elettricità prodotta da un motore a gasolio, in orario stabilito. L’unico telefono presente dislocato a diversi chilometri in un accampamento militare. I momenti del convivio condiviso con i monaci nei refettori.

Avevo raggiunto lo Shangri-La, tanto sognato e immaginato da mia figlia Ilaria.

Dovevo solo tornare, con un fiore in mano.