Allarme Odg: le supermulte della riforma sulla diffamazione rischiano d’intimidire la stampa più del timore d’una condanna penale. E’ la riprova della sinecura generale verso una categoria la cui debolezza economica è un vulnus professionale.

 

In gergo giudiziario dicesi temeraria la querela totalmente priva di fondamento e perciò destinata non solo a concludersi con il non luogo a procedere o con la piena assoluzione dell’imputato, ma con un provvedimento del giudice che condanna il querelante al pagamento delle spese e al risarcimento del querelato. In altre parole, il giudice sancisce che, mancandone del tutto i presupposti, il querelante è stato “temerario” a sporgere querela.

Ciò avviene perchè lo Stato desidera ovviamente scoraggiare i procedimenti “facili” o strumentali, i quali oltre che ingiusti sono costosi e ingolfano la macchina della giustizia.

E’ nella seconda accezione che, per i giornalisti, si parla – un po’ impropriamente, ma l’espressione è entrata ormai nel linguaggio comune – di querele temerarie, ossia di querele che sono, in realtà, non solo infondate ma soprattutto intimidatorie: hanno il fine, cioè, di tacitare, o scoraggiare, o intimidire il giornalista riguardo a certi argomenti o inchieste, prospettandogli non solo l’eventualità di una condanna per diffamazione, ma mettendolo sotto pressione anche attraverso la costrizione a sostenere spese, trasferte, assistenza legale oltre ovviamente al disagio psicologico che l’essere sottoposti a un procedimento penale comporta, anche nel caso in cui questo si concluda positivamente.

Un’appendice sempre più frequente della querela temeraria ai danni dei giornalisti è poi la parallela azione in sede civile, con la richiesta di risarcimenti di entità altissima e spesso insostenibile, soprattutto per chi non ha editori alle spalle ed opera come autonomo.

Ed eccoci al punto.

Sull’argomento ha rilasciato giorni fa un’interessante intervista a Repubblica (il testo integrale è qui) il presidente dell’OdG, Carlo Bartoli. Lo spunto è dato dal cosiddetto “ddl Balboni“, ossia la proposta di riforma della legge sulla diffamazione attualmente in discussione presso la Commissione Giustizia al Senato. Una riforma che prevede, sì, l’abolizione del carcere per i giornalisti eventualmente condannati, ma di contro eleva fino a 50mila euro le multe a loro carico. Somme, sostiene Bartoli, così elevate che rischiano di essere più “intimidatorie” della stessa prospettiva di una condanna penale.

Rimandiamo all’intervista per la questione generale e ci soffermiamo invece sul punto che ci sta più a cuore, ovvero l’oggettiva debolezza dei giornalisti autonomi (i quali, ricordiamolo, rappresentano il 70% della categoria e sono autori del 70% di quanto mediamente oggi pubblicato in Italia) al cospetto dell’eventualità di sanzoni pecuniarie elevatissime. Debolezza che, non a caso, fa il paio con l’ormai strutturale fragilità reddituale della categoria.

Si tratta di un’abbinata tutt’altro che peregrina.

Quelle prospettate dal ddl “sono cifre assolutamente spropositate, che producono un effetto dissuasivo dirompente“, afferma a ragione Bartoli. “Di norma oggi la sanzione è mille euro. Rendiamoci conto: 50mila euro un collaboratore o un freelance li guadagna in 5 anni. Significa piegare i colleghi al silenzio. Anche per un piccolo giornale sarebbe un problema insormontabile. Già oggi ricevere decine di querele è un serio ostacolo all’esercizio della professione, figuriamoci con lo spettro di sanzioni così salate, più i danni in sede civile […]. E già oggi, secondo il dossier sulla libertà di stampa di Reporter sans frontières, molti giornalisti italiani, soprattutto quelli meno tutelati, si autocensurano per evitare un’azione legale”.

Ora, riflettiamo un attimo.

Riconoscere che 50mila euro un collaboratore o un freelance li guadagna in 5 anni significa dire che il reddito medio di quelle figure professionali è oggi di 10mila euro l’anno, ossia 800 euro al mese. Una somma che non solo non garantisce la possibilità di difendersi in tribunale, ma neanche di svolgere la professione con la necessaria autonomia intellettuale e nemmeno la sopravvivenza quotidiana. Ovviamente si parla, appunto, di media. Ma le soglie quelle sono.

E siccome la discesa dei redditi degli autonomi – non sempre ragazzini alle prime armi o dopolavoristi, ma pure fior di professionisti con capacità ed esperienza – è in Italia una inarrestabile costante da almeno quindici anni, possibile che nessuno trovi la cosa altrettanto allarmante per il futuro dell’informazione?

Che indipendenza di giudizio, che autonomia di pensiero, che distanza dalle “tentazioni” di essere compiacente può avere uno che non è in condizione di mettere insieme il pranzo con la cena, è sindacalmente trasparente, privo di tutele di qualsiasi tipo, fuori sia da inquadramenti contrattuali che da “decreti”, “aiuti“, sovvenzioni, salvagenti che invece, per altre categorie, in caso di nessità fioccano (il recente caso della pandemia è un esempio eclatante di come la libera professione giornalistica sia stata abbandonata al suo destino e, anzi, proprio ignorata dalle istituzioni)?

Se ne conclude, un po’ sarcasticamente, che, oggi, più di chi sporge querele infondate contro i freelance rischiando la condanna, è temerario chi si avventura nei meandri di un mestiere lasciato a se stesso. E non a caso bazzicato da un sempre più alto numero di velinari, adulatori, marchettari, dilettanti e vispe terese che l’informazione nemmeno provano a farla, ignorando cosa essa sia. Ma così, almeno, certamente non rischiano querele.

Questo post è dedicato al giovane aspirante collega che giorni fa, in privato, mi ha chiesto lumi sulle reali prospettive del lavoro che vorrebbe intraprendere.