Frutto del mignottismo imperante, un segno dei tempi, la riprova dell’involuzione dei costumi,  l’effetto d’una folliache investe trasversalmente giornali e lettori e fas assottigliare sempre più il senso della differenza tra pubblicità e informazione? Lo stupefacente post di una giornalista che, ammettendo di fare marchette, pensa di affrancarsi così dalle relative responsabilità.

 

 

L’incipit è di quelli da trasecolare: “Avviso: questo post è un concentrato di conflitti d’interesse. Tutti e tre i produttori citati infatti sono miei amici e/o clienti”. La chiusa è anche peggio: “Last but not least, il post non è stato concordato con nessuno”. Tra il principio e la fine c’è invece solo abbondante materiale per il dileggio: “Nonostante questo, ritengo che i vini oggetto del post contengano in se’ sufficienti motivi d’interesse da ovviare a questo handicap per venire portati all’attenzione dei lettori. I quali, come sempre, sono liberi di saltare la lettura o leggere da qualche altra parte”.
Ora, anche a prescindere dalla sintassi, vale la pena di chiarire che i corsivi riportati sopra appartengono a una collega la quale, nel suo blog (che la medesima usa però come strumento di informazione e che come tale, nelle mani di un giornalista, dovrebbe forse rispondere alle norme previste dalle leggi vigenti per gli organi di informazione), fa aperta pubblicità ad alcuni vini.
Vini che non conosco e che magari sono ottimi: non è questo il punto. Il punto è invece che la collega dichiara smaccatamente l’operazione commerciale di cui è al contempo artefice e strumento: è infatti consapevole del conflitto di interessi esistente tra la propria posizione di giornalista e quella di estensore di una esplicita reclame, nonché del contrasto etico esistente tra il fare giornalismo (e quindi essere per definizione terzi rispetto a cose, fatti o persone) e chiamare i propri interlocutori addirittura clienti, cioè persone che (cfr Devoto Oli) “abitualmente si avvalgono della prestazione di qualcuno o acquistano quanto gli occorre dallo stesso fornitore”.
Sgomberiamo subito il campo, nel commentare la vicenda, da un possibile equivoco: nulla da dire, da parte mia, sul fatto che una collega, cioè una giornalista, curi l’ufficio stampa di qualche azienda. La figura dell’addetto stampa, cioè di tramite tra i media e un soggetto committente (azienda, ente, istituzione) è perfettamente legittima, utile, degna e ben circoscritta dalle norme professionali.
Avrei casomai qualcosa da dire su chi, contemporaneamente, lavora da addetto stampa (cioè da fornitore, da fabbricatore di notizie) e scrive sui giornali (cioè da acquirente, fruitore, giudice di notizie), ma nemmeno di questo qui mi interessa parlare.
La questione invece è: è ammissibile che un giornalista espressamente ammetta di fare “marchette”, cioè di diffondere a pagamento informazioni laudatorie su qualcuno o qualcosa che, non a caso, è definito “cliente”? E’ ciò deontologicamente accettabile? E’ ciò sopportabile da parte di una categoria che non solo, per definizione, non può essere al contempo giocatore e arbitro, a cui è imposta la netta separazione tra pubblicità e informazione, a cui è fatto obbligo di dire la verità, di verificare le notizie, insomma di svolgere un’attività imparziale, ma che al rispetto di tali specifiche regole affida la propria credibilità e il proprio prestigio?
Ebbene, la mia risposta è no. Perché con il suo surreale post la collega espone alla berlina e mette in cattiva luce l’operato quotidiano non solo di se stessa (pazienza: è una sua scelta) ma di tutti i giornalisti.
Mi si dirà: ma lo fanno tutti (rectius: tanti). Rispondo: e con ciò, anche se fosse? Siccome molti si mettono le dita nel naso, tanto basta a far rientrare questo comportamento tra quelli raccomandati dal galateo? Senza contare che qui non si tratta di forma, ma di sostanza.
Ma la cosa più allarmante, forse, è un’altra. Come dimostra l’esperienza quotidiana: il progressivo assottigliarsi, tra i lettori, della percezione del netto confine pratico e teorico esistente tra informazione e pubblicità. Una sindrome che si riscontra peraltro anche tra i giornalisti, ai quali sempre più spesso questa fondamentale differenza sfugge, così come sfugge la necessità di sottolinearla. Laddove è proprio la sottolineatura a fare la differenza (come giustamente la legge prevede).
Stando così le cose, però, una certezza c’è: nell’era dello sdoganamento della marchetta, finchè ci saranno (e verranno tollerate) uscite come quelle della disinvolta collega de qua, nessun giornalista potrà più lamentarsi se verrà tacciato dal lettore di disonestà intellettuale e nessun lettore potrà più lamentarsi se sulla stampa troverà notizie false, taroccate, camuffate o ingannevoli.
A questo punto sorge spontanea una domanda: a fronte di tanta esplicita ammissione, l’Ordine di appartenenza riterrà di intervenire o lascerà che la giornalista continui con i suoi vaniloqui a infangare la categoria?
Vedremo.